Di vetrine rotte, cassonetti bruciati, delle file alle mense della Caritas e del riformismo poliziesco di vecchie signore dal passato libertino, intente a rifarsi una verginità per entrare nei salotti buoni della borghesia

All’inizio dell’epidemia scrivevo, esprimendo un’opinione condivisa da chi è ancora capace di far di conto, che a pagare il prezzo maggiore della crisi sarebbero state le classi medie.
L’impoverimento e la (sotto)proletarizzazione della piccola borghesia è un fenomeno in atto da tempo.
Il capitale non può permettersi il lusso di mantenere quella parte di “consumatori” che non producono direttamente e indirettamente profitto.
La borghesia, con l’economia in perenne stagnazione e con le crisi che si susseguono a ritmo sempre più veloce, è costretta a cannibalizzare una parte di se.
A “tradire” i suoi figlioli venuti su male e meno adatti a affrontare la concorrenza.
A diminuire i costi e a minimizzare le perdite.

È lo stesso processo che ci porta alla polarizzazione della ricchezza da una parte e della miseria dall’altra, che comporta la scomparsa delle classi di mezzo e la costituzione di un immenso esercito di “nullatenenti” e “nullafacenti” che il modo di produzione capitalistico non può mantenere.
Come non può mantenere ogni giorno gli stessi livelli di “sviluppo” e di “benessere” che il giorno prima riusciva a garantire.
L’epoca dei superprofitti coloniali e imperialistici è finita da parecchio e nelle cittadelle del capitale si stringe la cinghia.

La crisi ha colpito settori già destinati a scomparire negli anni a venire. La sanità come i ristoranti.
Settori pubblici sui quali non si investiva più da anni perché troppo dispendioso farlo.
Settori privati già penalizzati dal crollo del mercato interno che sopravvivevano solo grazie ai salari di fame imposti ai propri dipendenti e all’evasione fiscale generalizzata.
Negli strati più bassi grazie a un auto-sfruttamento che non di rado coinvolge l’intera famiglia.

Una economia “circolare” fatta di consumi al cui vertice ci stanno i “bisogni” di quel 20% della popolazione che da sola detiene il 70% della ricchezza nazionale e alla cui base ci sta la lotta dei “poveri” che si contendono il posto alle mense pubbliche.

Una economia fatta di lavoro precario, nero, sottopagato, spesso ai margini della legalità. Dove essere “delinquente” può soltanto significare vendere pizzette senza licenza, lavare le vetrine senza autorizzazione, o andare a lavorare senza patente.
Il mondo di chi sopravvive arrangiandosi.
Vivendo alla giornata, senza garanzie, senza paracadute ne ammortizzatori sociali.

Ma la decimazione di una classe non è mai un fatto indolore per chi la subisce. Un fatto senza conseguenze.
Ed era ovvio immaginare che in un modo o in un altro la protesta sarebbe esplosa.
Era pure ovvio immaginare che la piccola borghesia incazzata si sarebbe portata dietro quelli a cui direttamente o indirettamente “dava il pane”.
Era ovvio che le situazioni di degrado, ai limiti della sopravvivenza, avrebbero tracimato venendo fuori dai loro “ghetti”.
Era ovvio che dalle file alla Caritas a bruciare i cassonetti il passo sarebbe stato breve.
Ed è altrettanto ovvio che è delle file alla Caritas che dovremmo provare a discutere e non di cassonetti bruciati.
Dei 400€ al mese di reddito che sono un’infamia ma che, se non ci sono più, ti cambiano la vita.

Bastava uscire fuori dal cortile di casa per immaginare che poteva succedere.
È quello che accade ogni notte in Usa fra gli applausi e il sostegno “militante” dei “democratici” e dei “rivoluzionari” del nostro bel paese.
Assaltano i supermercati, rompono le vetrine, bruciano le stazioni di polizia.
Chi li manovra? Chi li dirige? Quali sono i loro slogan? I loro obiettivi? La loro coscienza?

La pancia è il motore primo dei comportamenti umani.
E la pancia non si riempie coi programmi e le idee.
Semmai è il contrario.
Sono le idee che, in ultima istanza, vengono prodotte dalla pancia.

Per chi è abituato a ragionare con categorie astratte, che vede complotti dietro ogni angolo, che immagina lo scontro fra le classi come competizione fra opzioni e programmi diversi, è difficile comprendere l’elementarità di certe reazioni.
Elementarità prodotta dalla necessità.
Così come è difficile comprendere che niente è “programmato” e programmabile dalla classe dominante.
Che non c’è una “regia occulta” in un’epoca in cui a decidere la vita sull’intero pianeta sono masse in continuo movimento di anonimi capitali che sono, di fatto diventate esse stesse “proprietari” dei loro detentori.
E niente è programmabile e programmato dai “comunisti” che non esistono come forza materiale.
Vecchie signore dal passato libertino che hanno speso gli anni migliori della maturità a rifarsi la perduta verginità per potere entrare nei salotti buoni della borghesia.
E che semmai dovrebbero interrogarsi del perché sono decenni che non parlano più alla pancia degli sfruttati limitandosi a parlare alla testa “borghese” delle loro presunte avanguardie.

Il “politico” prima pensa poi agisce, le masse agiscono e poi pensano. In particolari condizioni la loro azione, la loro prassi, gli permette il “corretto” pensare.
In situazioni estremamente favorevoli si appropriano della “scienza” che una piccola comunità compatta di teorici ha gelosamente custodito e quotidianamente propagandato.
Prendono coscienza di ciò che è necessario fare.

I fenomeni sociali non si costringono dentro gli schemi prodotti dalla passata esperienza che, e non è cosa da poco, da decenni non ha nulla di rivoluzionario mentre puzza tanto di “pacifica coesistenza” col nemico di classe, di “confronto democratico”, di riformismo spicciolo da accattoni.

Spontaneismo e avventurismo, il “farsi strumentalizzare” è nella natura degli strati sociali condannati alla scomparsa.
Assaltare i forni è il massimo che riescono a produrre.
E “combattere” chi assalta i forni senza essere capaci di indicare un mezzo più “giusto” e politicamente convincente per accaparrarsi il pane significa solo tifare per la polizia. Invocare la repressione.

I fascisti non si infiltrano. Sono il prodotto del modo di far politica dei “bottegai”. Sono la loro immagine riflessa sul piano politico.
I “teppisti” che rompono le vetrine non sono provocatori al servizio di una occulta regia.
E il modo naturale di emergere sulla scena politica dei “clandestini”, quelli che non votano, non frequentano i luoghi dove si fa cultura, e se vanno sui social lo fanno solo per rimorchiare. Quelli a cui la democrazia ha consigliato di mangiare brioches e i comunisti di votare per la rivoluzione.

La società raccoglie ciò che ha seminato.
Si è detto che gli strati intermedi che si rivoltano e pure i sottoproletari e quei proletari che vivono delle briciole che i loro padroncini gli elargiscono sono “reazionari”.
Se scendono in piazza per mantenere (o non peggiorare ulteriormente) le loro condizioni di esistenza, è vero.
Sono “reazionari”.

Ma, dal punto di vista di chi prefigura la società futura, dal punto di vista dello “spettro” che ha smesso di aggirarsi per il mondo da troppo tempo ormai, la lotta per tenere aperta la bottega o per garantirsi un reddito di sussistenza, e quella del salariato che difende il posto di lavoro e chiede la cassa integrazione, sono la stessa identica cosa.
Sul terreno della difesa del proprio interesse corporativo tutte le lotte sono “riformiste”, perché si pongono il problema di mitigare le condizioni dello sfruttamento, non di abolirle. Conservano lo stato di cose presente.

Si ma il proletariato liberando se stesso libera tutta l’umanità.
Verissimo.
Ma appunto deve porsi il problema di “liberare se stesso”.
E solo in quel processo diventa attore cosciente capace di liberare tutti.
Fin quando rimane ingabbiato entro il recinto del sindacalismo e del riformismo. Fin quando si limita a trattare migliori condizioni di lavoro o di vita, il suo ruolo (e ora scandalizzatevi pure) è pari a quello del “bottegaio”.

L’operaio con la coscienza tradunionista, organizzato dal sindacato che contratta il prezzo della sua forza lavoro, egemonizzato dal padrone con cui divide l’obiettivo di “vincere” la concorrenza degli altri padroni, è reazionario… e senza virgolette. È merce. Merce pregiata perché arricchisce chi la possiede, ma pur sempre merce.

Il salto di qualità avviene quando “le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti”, e quando “questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene”.
Ma non c’è nessuna magia capace di rendere cosciente questa contraddizione se non il combinarsi e l’intrecciarsi dell’esperienza e della lotta del movimento reale con la pratica politica dei comunisti.
Su come ciò avvenga abbiamo esperienze lontane nel tempo, una montagna di libri e di proclami, ma, soprattutto, sappiamo come ciò non avviene.

Ciò detto, torniamo alle proteste di questi giorni.
I tempi della “sacra” unione nazionale contro il nemico “comune” sono un ricordo lontano. Anche se è di pochi mesi fa l’immagine delle famigliole riunite sui balconi che cantavano fiduciose l’inno nazionale, magari intercalato da “bella ciao”. Questo si che era un segno preoccupante.
L’adesione interclassista e popolare alla gestione della crisi che del fascismo aveva tutte le caratteristiche, compresi gli applausi ai poliziotti.

C’è la diffusa sensazione del fallimento, sul piano della gestione della crisi sanitaria, e soprattutto delle sue conseguenze economiche.
C’è l’accentuarsi della ingovernabilità e il cedimento, sia pure ancora di settori marginali, del fronte interno.
E un pezzo delle classi “cuscinetto” e degli strati sociali più ricattati e ricattabili, spesso in passato usati come serbatoi dai quali trarre un facile consenso al servizio della reazione populista, si ritrovano costrette a scendere in piazza e si ribellano ai loro “benefattori”.
C’è voglia di linciaggio dei generali felloni che se la sono presa comoda mentre il “popolo” combatteva la sua battaglia sui pullman affollati e nelle file per fare i tamponi.

C’è una difficoltà dello Stato a governare la situazione.
Il metodo usato dalla politica è stato quello di prendere tempo per non affrontare i nodi cruciali di una crisi che ha origini strutturali su cui l’epidemia ha solo acceso i riflettori.
L’unica carta finora giocata è stata quella dell’assistenza, complice la banca europea che non se l’è sentita di affrontare una crisi generale e si è messa a stampare moneta.
Il rifiuto del MES da parte di tutti gli stati europei, linea di credito che imponeva un solo obbligo che è quello di spendere subito quei soldi per rafforzare il settore sanitario, la dice lunga sul fatto che, passata l’emergenza, su quel settore non si investirà un euro.
Mentre si continuerà a finanziare la preparazione bellica e a razionalizzare i settori a più alta composizione organica del capitale dove si occupa meno forza lavoro.
La borghesia fiuta aria di accelerazione dello scontro fra le cricche che si spartiscono il mondo (e i profitti) e sa cosa è strategico e cosa no.

Non succederà nulla di rilevante fin quando ci saranno soldi da elargire per tamponare le falle.
Quando finiranno si vedrà.
Non è nemmeno improbabile che, con le spalle al muro, la sgangherata classe dominante degli stati più deboli decida di autotassarsi con una “dolorosa” patrimoniale (la Spagna si sta già muovendo) con buona pace di chi ne ha fatto il punto centrale del programma “comunista”.

In ogni caso ciò di cui i governi hanno bisogno è la pace sociale all’interno per scaricare i costi è i conflitti all’esterno.
La gara fra le nazioni oggi non è fra chi chiude la partita con meno morti ma fra chi conquisterà nuovi mercati.
Dietro l’angolo ci sta l’unione sacra della nazione ecumenicamente impegnata a sconfiggere il “male”.

E finalmente arriviamo alla domanda finale. Che cazzo fa la classe operaia?
Fa quello che gli hanno insegnato a fare. Se ne sta incatenata alla macchina a produrre. Nelle serre a coltivare pomodori. Nei magazzini e sui camion a distribuire le merci necessarie. A curare i malati e a dare da mangiare ai bisognosi.

Chiariamo una cosa una volta per tutte. La scorciatoia di inventarsi altri soggetti sociali più rivoluzionari a partire dalle loro condizioni di bisogno, e non dal loro ruolo nel processo produttivo, non porta da nessuna parte. Forse all’assalto ai supermercati e a qualche statua abbattuta. Ma nulla di più.

Ma il soggetto che dovrebbe fare la rivoluzione non ha nessuna intenzione al momento di farla.
Se ne sta buona a guardarsi l’ombelico.
Classe “in se”, senza nemmeno l’idea che possa diventare “classe per se”.
Anche qui raccogliamo ciò che abbiamo seminato e la zizzania che abbiamo spacciato per erba commestibile.

Fatte salve le dovute eccezioni, e le esperienze “eroiche” ma episodiche di qualche realtà “anomala” che non ho mai sottovalutato e che anzi ho sempre salutato come segni di una possibile ripresa della lotta di classe, la classe operaia “organizzata e cosciente” incassa la cassa integrazione (guarda “caso”, quelli per gli ammortizzatori sono gli unici soldi pronto cassa arrivati dall’UE), il blocco dei licenziamenti e si prepara all’ennesima trattativa sindacale per cogestire la crisi.

Ora quando le altre classi e gli strati sociali più colpiti dalle crisi, si rivoltano e scendono in piazza e la classe operaia si rinchiude nelle sue “casematte” non ne è mai scaturito nulla di buono ne per le “sorti della rivoluzione” ne per gli stessi operai.
Il padrone non vuole distruggere l’operaio. Non può farne a meno. Mentre può fare a meno dei “bottegai”. Al momento, e in attesa che qualche altra “entità” sia capace di produrre valore, deve tenerselo buono.
Allearselo, perfino concedendo qualcosa che proverà a rimangiarsi passata la bufera.

Delle vetrine infrante non me ne frega nulla, anche perché non posso influire su quelle dinamiche più di tanto e comunque so bene che, alla fine della narrazione che viene diffusa a piene mani in questi giorni, ci sta “l’unità nazionale”, la “difesa della democrazia” contro il terrorismo e non ho voglia di arruolarmi in qualche comitato di difesa dell’ordine pubblico.

E il vero fascismo che mi preoccupa è quello di un rinnovato “patto per il lavoro”.
Una cogestione corporativa della crisi che veda i “garantiti” salvarsi il culo con qualche perdita “limitata e accettabile”.
Il sindacato ci andrebbe a nozze magari con la contropartita di un ulteriore giro di vite sulle frange “impazzite” e minoritarie della classe.
Quando si impara dai “bottegai” si finisce per praticarne gli stessi costumi e “cannibalizzare” la parte più debole della propria classe, soprattutto se è la più conflittuale e la meno permeabile alle politiche di “dialogo” col padrone, può diventare una tentazione.

E chi garantito non è, come è nelle tradizioni della democrazia, viene retrocesso a problema di polizia.
È un film già visto con biglietto pagato.

Lo confesso, ho più paura del riformista che del fascista, vero o presunto.
Ho più paura della coscienza riformista della classe operaia che dell’incoscienza prodotta dalla disgregazione sociale.

Sto rileggendo un libretto che fa la cronaca degli incidenti di piazza Statuto a Torino (1962, preistoria).
L’Unità se ne usci definendoli teppisti e provocatori e pure fascisti, e ne aveva motivo visto che Pajetta si prese una sassata.
È interessante scorrere la lista degli arrestati.
Tranquilli, nessun paragone fra epoche e situazioni così lontane nel tempo… a volte uno legge solo per il piacere di farlo.

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