La “doppia circolazione” della Cina capitalista

Pubblichiamo, col suo consenso e ringraziandolo, un contributo del compagno Sebastiano Isaia.

di Sebastiano Isaia*

Dal 26 al 29 ottobre si è tenuto a Pechino il 5° Plenum del 19° Comitato centrale del Partito Capitalista Cinese che aveva il compito di stabilire le linee guida del 14° Piano quinquennale (2021-2025), e quelle di una strategia di medio termine ribattezzata Visione 2035. Cerchiamo di capire di cosa si è discusso in questo Plenum che molti analisti ed esperti di “cose cinesi” hanno già definito storico, districandoci, come sempre in questi casi, tra dichiarazioni realistiche dei Cari Leader e propaganda politico-ideologica a uso interno e internazionale. Si tratta di una prima impressione “a caldo”, e quindi tutta da verificare.

Il comunicato ufficiale rilasciato il 29 ottobre sostiene che entro il 2035 il Pil pro capite della Cina dovrà raggiungere il livello delle «nazioni moderatamente sviluppate» e la sua classe media espandersi in modo significativo (oggi essa ammonta a circa 400 milioni di persone). «L’autosufficienza tecnologica, principale fronte della sfida con gli Stati Uniti, viene definita come il “supporto strategico” decisivo per lo sviluppo. Arriveranno massicci investimenti per realizzare “passi avanti maggiori” che portino la Cina “nella prima linea dei Paesi innovativi”. Il plenum ha riconosciuto che per raggiungere questi traguardi ci sarà bisogno di proseguire con le riforme, citando quella dei “diritti di proprietà”, e insistito molto su un concetto bilanciato e sostenibile di crescita. La leadership cinese vuole ridurre le disparità tra città e campagne, promuovere una nuova urbanizzazione, continuare a diminuire le emissioni (anche qui nessun numero, ma Xi ha parlato di “neutralità” entro il 2060)» (La Repubblica). Per adesso si tratta di semplici titoli, dell’enunciazione degli obiettivi che si intendono conseguire, mentre per una più concreta definizione della nuova linea politico-economica, caratterizzata da tempi certi e da numeri precisi, bisognerà attendere qualche mese. Per adesso siamo ancora alla “filosofia”, per così dire, aspettando la sua prossima “messa a terra”.

«Per la prima volta nella sua storia, il Pcc ha steso un preciso programma per creare una “grande cultura socialista” entro il 2035, tappa intermedia per arrivare a essere “una moderna nazione socialista” nel 2049. Pechino vuole promuovere il soft-power cinese, cavalcando ad esempio i successi che il regime rivendica nella lotta alla pandemia da coronavirus. La leadership del Partito è stata chiara: la vittoria contro il Covid-19 e il recupero dell’economia mostrano la superiorità del sistema politico della Cina» (AsiaNews). Se di superiorità si deve parlare, ed è tutto da vedere, almeno nel medio e lungo periodo, si tratta in ogni caso di una superiorità tutta interna al capitalismo mondiale, alla competizione interimperialistica, checché ne dicano gli anticomunisti (che non sanno nulla di comunismo, sebbene giustamente lo temono come la peste) e i tifosi del «socialismo con caratteristiche cinesi» (che di comunismo ne sanno ancora di meno), che sono poi le due facce della stessa escrementizia medaglia. Non a caso ho parlato all’inizio di Partito Capitalista Cinese, perché da Mao Tse-tung a Xi Jinping di capitalismo “con caratteristiche cinesi” si tratta, sebbene nelle diverse forme che esso ha assunto in Cina dal 1949 in poi, cioè lungo il travagliato e assai turbolento (anche in termini di conflitti politici e sociali, con relativi morti, feriti e incarcerati) processo di formazione e consolidamento della moderna nazione cinese1.

«Le autorità non trascurano il potenziamento militare. Il piano quindicennale prevede la trasformazione delle Forze armate in una moderna macchina da guerra entro il 2027: è la prima volta che un documento del genere contiene un riferimento allo sviluppo militare. Gli analisti osservano che l’idea di Pechino è quella di avere entro tale data un esercito allo stesso livello degli Usa». A questo proposito occorre ricordare che la sessione plenaria annuale del comitato centrale del Pcc è stata preceduta da una celebrazione dei 70 anni dall’ingresso della Cina nella Guerra di Corea (ottobre 1950) davvero paradigmatica circa l’attuale postura strategica del gigante asiatico nei confronti degli Stati Uniti. Ricordando la guerra «per resistere all’aggressione americana e aiutare la Corea», il Presidente Xi Jinping ha dichiarato: «Il popolo cinese sa che bisogna usare una lingua che gli invasori possono capire, combattere la guerra con la guerra, fermare l’aggressione con la forza, guadagnare la pace con la vittoria. Gli eroici soldati cinesi hanno distrutto il mito dell’invincibilità dell’esercito americano». Naturalmente parlare del passato è servito al Presidente cinese per chiarire come oggi si configura la posizione della Cina nei confronti del suo nemico strategico principale: gli Stati Uniti d’America, appunto. E per meglio chiarire il concetto, Xi ha aggiunto: «Il popolo cinese non vuole creare problemi, ma non ha paura, le nostre gambe non tremeranno, le nostre schiene non si piegheranno». Un messaggio forte e chiaro, non c’è dubbio. Il tono particolarmente aggressivo e propagandistico del Caro Leader è tanto più significativo se si riflette sul fatto che quasi mai la celebrazione di quell’evento straordinario nella storia della Cina moderna ha toccato i livelli propagandistici e nazionalisti di quest’anno; addirittura negli anni Settanta del secolo scorso, al tempo della “distensione” tra Washington e Pechino, quella ricorrenza subì un evidente declassamento. Allora il nemico numero uno della Cina era l’Unione Sovietica. Solo dopo la sanguinosa repressione del movimento sociale del 1989 (Piazza Tienanmen) quella ricorrenza fece registrare un’impennata nazionalistica, per poi ritornare rapidamente ai toni più moderati e concilianti che abbiamo registrato nel corso della lunghissima fase di crescita economica del Paese che ha portato il Dragone ai vertici del capitalismo mondiale. Dopo molti anni di “pacifica collaborazione”, il barometro dei rapporti Cina-Usa tornano a indicare brutto tempo, e questo a prescindere dalla Presidenza Trump.

Intanto si intensifica, con alterne fortune, l’attivismo politico-militare degli Stati Uniti in un’area che la Cina considera il proprio cortile di casa: «L’ottobre appena concluso ha segnato in modo marcato l’impegno americano nell’indo-pacifico ed è stato il mese più proficuo (tra quelli recenti) per strategia e tattica statunitense, che vede l’impegno nella regione come la più logica componente geopolitica del confronto globale con la Cina. Sulla colonna delle vittorie dirette, Washington segna certamente l’accordo di cooperazione militare con Nuova Delhi. […] Nella costruzione del puzzle strategico americano nell’Indo-Pacifico manca un tassello importante: la Corea del Sud. La posizione di Seul è riassumibile nelle parole che il presidente Moon Jae-inn ha affidato a un suo consigliere: “Se gli Stati Uniti ci costringessero ad aderire a un’alleanza militare contro la Cina, sarebbe un dilemma davvero esistenziale per noi”». (Formiche, novembre 2020).

Ma ritorniamo ai risultati del Quinto Plenum, la cui discussione si è incardinata intorno a una parola chiave: shuang xunhuan (doppia circolazione). Di che si tratta?

A leggere i resoconti di molti analisti, pare che il Partito fedele al Xi Jinping-Pensiero voglia orientare il Paese in direzione di una sua chiusura autarchica (suggestione che richiama i “fasti” del maoismo), cioè verso una sorta di capitalismo in un solo Paese, a prevalenza statale, in grado di innalzare una sorta di muraglia economica e tecnologica che metta la “pacifica e armoniosa” società cinese al riparo dagli shock della globalizzazione e dall’iniziativa ostile dei cattivoni a stelle e strisce. Ma stanno davvero così le cose?

Nella sua ultima visita nel Guandong (13 ottobre, celebrazione del 40° anniversario dal lancio della Zona economica speciale di Shenzhen), Xi Jinping ha chiarito il concetto di doppia circolazione (intendendo per circolazione la produzione, la distribuzione e il consumo di “beni e servizi”): «È necessario promuovere la formazione di un nuovo modello di sviluppo in cui il grande ciclo domestico sia il corpo principale e nel quale la doppia circolazione si promuove a vicenda». Filippo Fasulo prova a chiarire meglio: «Nella visione proposta da Xi Jinping, per doppia circolazione si intende una dialettica fra la circolazione economica domestica e quella internazionale. Per visualizzare il tema si pensi che il termine cinese è lo stesso utilizzato quando si parla di “circolazione sanguigna”. In parole più semplici, viene messa in relazione l’integrazione globale – la circolazione esterna – con i consumi domestici – la circolazione interna. La dinamica da gestire, dunque, è quella fra una economia dipendente dalle esportazioni e, quindi, dalla domanda internazionale, e un ruolo più ampio accordato ai consumi interni. L’indicazione di oggi è che, nell’attuale contesto di incertezza dovuto alla pandemia e alle dispute commerciali, si debba puntare soprattutto sulla circolazione interna» (ISPI, 30/9/2020). In astratto la cosa appare abbastanza intuitiva, mentre sul piano pratico la questione si presenta oltremodo complessa e contraddittoria, a partire dal fatto che ancora oggi Cina e Stati Uniti sono molto integrati dal punto di vista commerciale, tecnologico2 e finanziario. Il temuto o auspicato disaccoppiamento (decoupling) tra le economie dei due Paesi al vertice del capitalismo mondiale appare quantomeno “problematico”: «Secondo i leader cinesi, “protezionismo e unilateralismo” – un indiretto riferimento a Washington – sono le principali minacce esterne alla crescita economica del Paese, messa in pericolo anche dagli squilibri economici interni. Il “decoupling” (separazione) dagli Stati Uniti è visto però come “irrealistico”: nel terzo trimestre dell’anno gli scambi commerciali tra le due potenze sono cresciuti in effetti del 16%» (AsiaNews, 30/10/2020).

Anche sul piano finanziario l’integrazione tra i due Paesi ha raggiunto un livello assai rilevante, e tutto lascia prevedere che lo sarà molto di più nel prossimo futuro. Di certo il mercato finanziario cinese si sta muovendo in quel senso, come dimostra per ultimo il “caso Alibaba”3.

«L’americanissima Bloomberg il 27 ottobre ha pubblicato un articolo in cui afferma che a settembre c’è stato un import cinese di merci americane record, 10 miliardi. Gli acquisti di beni energetici sono aumentati a settembre del 75%, con import record di petrolio. Il valore dei prodotti agricoli è aumentato del 60%, mentre l’import della soia, cuore nevralgico degli Stati agricoli americani, è aumentato del 600%. Sono aumentati enormemente anche gli acquisti di auto e cotone, ma Bloomberg fa sapere che le spedizioni, e le prenotazioni di merci americane, a settembre, che arriveranno a ottobre o novembre, sono da record. Ricordiamo che a settembre l’import totale di merci dal mondo è aumentato del 14%, i dati delle merci americane ci dicono che gli Usa in Cina stanno enormemente sovraperfomando rispetto a rivali commerciali storici come la Germania. La strategia di Trump di reindustrializzazione degli Usa attraverso pressioni per un fair trade trova riscontro, dopo due anni burrascosi, in Cina (anche se esportano soprattutto prodotti agricoli, come un paese del terzo mondo…), che riconoscono la legittimità delle sue richieste. Forse non vedono di buon occhio un democratico, magari burattino dei guerrafondai alla Hillary Clinton, alla Casa Bianca. Preferiscono un ruvido uomo d’affari. Cosa combina all’interno del proprio paese non è affar loro, ma sono pronti a sfruttarne le debolezze. Certo, Trump strepita contro il “virus cinese” nella campagna elettorale, ma loro non ne fanno un dramma, sono solo parole. Sotto sotto si va avanti con gli accordi» (Contropiano). L’autore dell’articolo, che a quanto pare è un ammiratore, se non addirittura un fervente sostenitore, del Capitalismo/Imperialismo cinese, conclude come segue: «Perché loro possono e noi no? Perché non siamo un Paese sovrano e la classe dirigente, da decenni, è espressione di quella che altrove – in America Latina, per esempio – viene chiamata borghesia compradora. Letteralmente in vendita, subordinata oltre ogni limite, che assume le istanze delle potenze estere come espressione della sua politica (vedi Di Maio). Trump dimostra che la politica è tutt’altro, e gli affari internazionali non c’entrano niente con le sparate propagandistiche. Forse, se non crolla, dopo il 4 novembre farà una telefonata a Xi Jinping e Putin….». Vuoi vedere che i socialsovranisti di casa nostra, il cui “realismo geopolitico” ricorda molto quello della destra repubblicana statunitense, tifano, sotto sotto (ma poi non così tanto sotto), per Trump? Io lo sospettavo, diciamo così.

La “doppia circolazione” spiegata da Andrew Sheng, Distinguished Fellow all’Asia Global Institute dell’Università di Hong Kong, e da Xiao Geng, professore e direttore del Research Institute of Maritime Silk-Road dell’Università di Pechino (si tratta quindi del punto di vista cinese): «Per cominciare, la pandemia COVID-19 ha evidenziato quanto siano vulnerabili alle interruzioni le nostre catene di approvvigionamento globali “just in time”, cosa che ha alimentato le richieste di “de-globalizzazione”. Allo stesso tempo, le tensioni con gli Stati Uniti, il più grande partner commerciale della Cina, stanno aumentando. Il disaccoppiamento economico ora sembra più probabile che mai. La strategia della doppia circolazione della Cina è una risposta pragmatica alle pressioni interne ed esterne in rapida evoluzione che il Paese deve affrontare. L’obiettivo dei responsabili politici è aumentare la catena di approvvigionamento e la resilienza del mercato sfruttando l’enorme popolazione cinese di 1,4 miliardi, inclusi 400 milioni di consumatori della classe media. […] La strategia della doppia circolazione aiuterà, creando mercati nazionali più liberi e più unificati per il capitale fisico, finanziario e umano, i prodotti, i servizi, la tecnologia e le informazioni. Ma rafforzare i cicli interni di produzione e consumo non significa distruggere le reti di commercio estero, investimenti, turismo e istruzione; al contrario, la Cina è destinata a continuare ad aprire la sua economia, in particolare il suo mercato finanziario. Piuttosto, la doppia circolazione significa che gli scambi esterni saranno espansi e approfonditi in modi che completino l’economia nazionale. Se il resto del mondo vorrà cooperare in questi termini per la Cina andrà bene. In caso contrario, la Cina farà affidamento sui propri formidabili punti di forza per sostenere la propria crescita e sviluppo: un’ampia base di consumatori, capacità innovative in rapida crescita, eccetera. In poche parole, se il mondo non è pronto per la cooperazione, la Cina si adatterà alla polarizzazione» (CNA, 4/10/2020).Per Andrew Sheng e Xiao Geng il rafforzamento del mercato interno della Cina non significa dunque arrestare o sottovalutare il commercio con l’estero, ma piuttosto che gli scambi con l’estero verranno ampliati e approfonditi in modi che completino l’economia interna.

Xi Jinping da parte sua ha voluto chiarire che la doppia circolazione non ha una natura tattica di breve respiro, non è stata cioè pensata come risposta a problemi contingenti, superati i quali lo sviluppo dell’economia cinese riprenderà il cammino intrapreso nel lontano 1978, quando al III Plenum dell’XI Comitato Centrale si diede avvio alla politica di “riforma e apertura” di Deng Xiaoping; essa segna invece una vera e propria svolta strategica nella linea di sviluppo della società cinese. Detto questo, il conflitto commerciale e tecnologico con gli Stati Uniti degli ultimi anni e la pandemia che ha avuto proprio nella Cina il suo luogo di origine hanno certamente accelerato processi sociali in corso già da tempo e fatto maturare decisioni politiche di cui si parla già da qualche anno. Scrive Filippo Santelli: «Non è una novità: da tempo il Partito comunista sta cercando di pilotare la transizione dell’economia cinese dal modello low cost “fabbrica del mondo” a uno basato su innovazione e consumi. La “doppia circolazione” rilancia l’obiettivo, al momento incompiuto e reso ancora più urgente dalla recessione. virale e dalla sfida innescata dagli Stati Uniti. L’ambiente esterno presenta grandi rischi, sotto la spinta di Washington, ma non solo, il mondo prova a diminuire la propria dipendenza economica dalla Cina. L’unico modo per tenere a giri elevati il motore della crescita è dare più peso alla circolazione interna (pur senza chiudere le porte al mondo, ma anzi incentivando l’afflusso di competenze e capitali di cui il Paese ha bisogno)» (La Repubblica, 29/10/2020).

La controffensiva commerciale americana – e in parte europea – e la crisi pandemica hanno dunque accelerato processi economici e scelte strategiche maturati nel corso di oltre un decennio. Le prime avvisaglie della “grande transizione” (dal primato delle esportazioni al primato dello sviluppo interno) si possono far risalire alla crisi economica internazionale del 2008/2009, quando la contrazione della domanda mondiale costrinse la Cina a praticare una politica di massicci “stimoli economici” che ha portato l’economia del Paese sul poco virtuoso sentiero dell’indebitamento e della sovrapproduzione. Nel 2015 si è iniziato a parlare in Cina di una “Nuova Normalità”, ossia di una crescita economica basata sulla produzione di qualità (vedi il progetto Made in China 2025) e sempre più orientata al mercato interno – secondo il modello della China International Import Expo, prima fiera delle importazioni che si tiene a Shanghai dal 2018. L’anno scorso, l’interscambio commerciale con l’estero equivaleva al 32% del prodotto interno lordo cinese, esattamente la metà del picco del 64% raggiunto nel 2006. «Ma per mantenere la stabilità sociale a dispetto degli inevitabili costi sociali di una simile metamorfosi, sarà necessaria una “svolta politica”, una decisa oscillazione del tradizionale pendolo che segnala il clima politico all’interno del Partito dal mercato verso lo stato. In questa nuova fase di “instabilità” e “incertezza” i 400 milioni di persone diventati classe media negli ultimi anni non sono più sufficienti ad alimentare il “sogno cinese” promosso da Xi Jinping. Nel 2019, i consumi hanno rappresentato il 55,4% del Pil (contro il 49.3% nel 2010), ancora decisamente inferiori rispetto al 70-80% tipico delle economie avanzate. E, più che in tanti altri paesi – a causa della loro spiccata tendenza al risparmio – quella post-Covid si preannuncia come una lunga fase di stagnazione dei consumi dei cinesi, particolarmente restii a spendere nel clima d’insicurezza determinato dalla pandemia e dalla guerra commerciale-tecnologica» (M. Cocco, Centro studi sulla Cina contemporanea, 21/10/2020).

Per farci un’idea, anche solo approssimativa, della struttura sociale della Cina e della sua dinamica sono sufficienti questi pochi dati: sono circa 600 milioni i lavoratori che guadagnano meno di 140 dollari al mese, mentre la popolazione rurale ammonta a 560 milioni, pari a circa il 40% della popolazione cinese, una percentuale che distanzia ancora enormemente la Cina dai Paesi capitalisticamente avanzati. D’altra parte quella popolazione costituisce la riserva di manodopera a basso costo di cui hanno estremo bisogno soprattutto le metropoli industrializzate del Paese – a partire dalla provincia del Guandong – e le multinazionali di tutto il mondo che sfruttano manodopera cinese. «Secondo i dati della Fao, fra un lavoratore urbano e uno rurale il rapporto sulla differenza di guadagno mensile è di 1 a 10. Inoltre, questo guadagno rischia di essere ancora minore dato che i contadini non hanno il permesso di vendere la propria produzione in un mercato libero, ma devono consegnarne una parte allo Stato, che la compra a prezzi “calmierati”» (AsiaNews). Nel 2006 vivevano nelle aree rurali 737 milioni di individui, ovvero il 56% della popolazione del Paese. Ogni anno, negli ultimi 14 anni, è dunque emigrato dalle campagne in direzione delle città un esercito di oltre 12 milioni di persone. L’agricoltura impiega circa 211 milioni di lavoratori, pari al 26,5% della forza lavoro totale; i lavoratori occupati nell’industria sono 225 milioni (28,27%) e quelli occupati nei servizi 359 milioni (45,17%), per un totale di 795 milioni (dati stimati per il 2019). Come già detto, la classe media cinese ammonta a 400 milioni di persone.

Se il decollo del capitalismo cinese è avvenuto sotto il segno della sua piena integrazione nel sistema capitalistico mondiale, diventandone un nodo centrale nella cosiddetta catena globale del valore (soprattutto grazie al basso costo della forza-lavoro cinese), oggi l’enfasi è posta dunque sulla “circolazione interna”, ossia sulla produzione, la distribuzione e il consumo di “beni e servizi” interni alla società cinese. Il concetto, come abbiamo visto, è tutt’altro che nuovo, dal momento che è da almeno un decennio che il regime parla della necessità di portare lo sviluppo economico anche nelle vaste regioni interne del Paese non ancora toccate dalla modernizzazione capitalistica. Si tratta di una gigantesca riserva di caccia che offre al Capitale cinese eccezionali opportunità di profitti, anche se questa stessa possibilità promette di innescare processi e contraddizioni sociali di non facile gestione politica. Ma il Partito-Stato è abituato a confrontarsi con i complessi problemi che derivano dallo sviluppo economico, e al momento i risultati danno ragione ai sostenitori di un assetto totalitario delle istituzioni cinesi – senza peraltro azzerare del tutto le opzioni aperte a una riforma, più o meno “timida”, dell’architettura statuale cinese. Per dirla con Michelangelo Cocco, autore di Una Cina “perfetta”. La Nuova era del PCC tra ideologia e controllo sociale (Carocci, 2020), il Partito Capitalista Cinese «si sta affermando come una sempre più efficiente macchina di governance del XXI secolo».

Il mondo “post globalizzazione” di cui tanto si parla negli ultimi tempi registra certamente una battuta d’arresto, o probabilmente solo un rallentamento della macchina capitalistica mondiale, ma sarebbe errato, a mio avviso, dedurne una tendenza “regressiva” generale, ossia un ritorno indietro del capitalismo verso un suo assetto di tipo autarchico. L’adeguamento dei maggiori capitalismi mondiali alla nuova fase non avviene comunque su scala nazionale ma continentale, ed è certamente tale la dimensione non solo dell’Europa centrata sull’asse francotedesco, ma anche della Cina (in realtà di tutta l’area del Pacifico asiatico) e degli Stati Uniti, Paesi che sono sufficientemente grandi e ricchi di risorse umane ed energetiche da poter fronteggiare con buone possibilità di successo la cattiva congiuntura dell’economia internazionale e prepararsi per la nuova fase espansiva della “globalizzazione”.

La produzione e i consumi interni come volano della futura crescita economica della Cina: si tratta di una strategia di ampio respiro e dalle molteplici conseguenze (di natura interna e internazionale) i cui primi effetti si vedranno, se si vedranno, nei prossimi anni e non certo nei prossimi mesi. Infatti, non è facile né senza incognite di varia natura riorientare una macchina gigantesca qual è diventata l’economia capitalistica cinese.

Per Martin Jacques, autore nel 2009 del bestseller When China Rules the World che annunciava la prossima «fine del mondo occidentale e la nascita di un nuovo ordine globale» centrato sul Celeste Imperialismo Cinese, ha di recente dichiarato che «ricorderemo il 2020 come il momento della Grande Transizione. L’anno in cui la Cina ha sostituito gli Stati Uniti come potenza leader del mondo» (Financial Times). Gideon Rachman, editorialista del Financial Times, ha obiettato a Jacques di aver fatto una previsione troppo in anticipo sui tempi che sottovaluta grandemente i fattori di debolezza che continuano a zavorrare la Cina, come le sue arretrate aree rurali interne, la sua periferia non ancora domata sotto il profilo etnico-religioso, una demografia che potrebbe sfuggire al rigido controllo di Pechino e un sistema politico-istituzionale totalitario che alla fine potrebbe non essere più in grado di controllare l’ascesa impetuosa delle classi medie. Il tempo dirà da quale parte sta la ragione – di certo non dalla parte delle classi subalterne che nutrono il Dragone, se le cose rimarranno inalterate sul terreno del conflitto sociale.

* tratto da: LA “DOPPIA CIRCOLAZIONE” DELLA CINA CAPITALISTA

Note

  1. Rimando i lettori ai miei diversi scritti sulla Cina; ne cito solo quattro: Sulla campagna cinese; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese; Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; Da Mao a Xi Jinping. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi.
    Scriveva Paul M. Sweezy: «Nel caso della Cina, lo sviluppo del Partito comunista cinese ebbe luogo nelle grandi città costiere e si basò soprattutto sulle loro classi operaie, sul modello dei bolscevichi prerivoluzionari in Russia. Ma dopo le sconfitte del 1927 per mano del Kuomintang e dei suoi finanziatori esteri, il Pcc fu costretto a ritirarsi nelle campagne, e dopo di allora, fino alla conquista finale del potere vent’anni dopo, la composizione del movimento rivoluzionario fu per lo più rurale (contadini, senza terra, piccoli borghesi)» (P. M. Sweezy, Il Marxismo e il futuro, 1981, p. 91, Einaudi, 1981). In realtà, il mutamento nella composizione sociale del movimento rivoluzionario cinese registrò una sua ben più radicale trasformazione: infatti, da promettente soggetto rivoluzionario proletario il Partito Comunista Cinese, sottoposto alle “amorevoli” cure dello stalinismo (espressione più emblematica della controrivoluzione in Russia e nel mondo) diventò un soggetto rivoluzionario nazionale-borghese. In altre parole, con il PCC di Mao non siamo dinanzi a un semplice cambiamento nella strategia politica dei comunisti, intesa ad adeguarla alla nuova situazione; ci troviamo piuttosto di fronte alla morte della natura proletaria (nell’accezione teorico-politica, e non meramente sociologica, del concetto) di quel Partito, nonostante esso conservasse il vecchio nome – secondo l’esempio sovietico.
  2. «Il dato che salta all’occhio, in questo ambito, è quello delle importazioni di circuiti integrati che, con un valore superiore ai 300 miliardi di dollari rappresenta la prima voce dell’import cinese, superiore ai poco meno di 250 miliardi di dollari di petrolio, di cui Pechino guida la domanda mondiale. Inoltre, gli investimenti in innovazione anche nel 2019 hanno superato un tasso di crescita del 10%, indirizzandosi, per l’83,4% allo sviluppo industriale e contribuendo, dunque, alla crescita qualitativa dell’industria cinese. Anche in occasione dello stimolo economico approvato a fine maggio una grande attenzione è stata rivolta alla tecnologia avanzata, promuovendo le cosiddette “nuove infrastrutture” (ferrovie ad alta velocità, 5G, Big Data, AI e colonnine per i veicoli elettrici) per un valore che nel 2020 potrebbe superare i 2.000 miliardi di Rmb» (F. Fasulo, ISPI, 30/9/2020).
  3. «Due giorni dopo l’Election Day negli Stati Uniti, in due borse cinesi inizierà contemporaneamente il più grande collocamento di una new entry – IPO, Initial Pubblic Offering – mai vista sul mercato mondiale. Si tratta di Ant Group, il “braccio finanziario” di Alibaba, fondata dal miliardario cinese Jack Ma poco meno di 20 fa. Si è recentemente ritirato dal management di Alibaba (non dal’azionariato), e possiede ora anche Alipay, la maggiore azienda di pagamento digitale della Repubblica Popolare. Insieme a WeChat, controllata da Tencent Holdings, detiene il 40% del mercato, Alipay il è leader – con il 55% – del pagamento “senza contanti” attraverso la lettura di un codice QR dal proprio Smartphone. Si possono fare acquisti che alle nostre latitudini solitamente vengono effettuati in contante strisciando il proprio cellulare su un quadrato bianco-nero stampato su un semplice pezzo di carta. Il sistema di pagamento attraverso le carte di credito è stato “saltato” dalla Cina, che è passata direttamente al digitale e ai relativi servizi, divenendone per quantità e qualità il leader mondiale. Si può pagare un taxi, un pasto, l’affitto o le bollette… Il suo bacino di utenza è attualmente di 730 milioni di persone al mese; ha creato in pratica un “ecosistema” economico per i beni di consumo affiancando il sistema bancario cinese a controllo pubblico, tendenzialmente indirizzato prevalentemente al finanziamento dell’industria statale e di progetti infrastrutturali. […] Si tratta di un avvenimento in qualche misura “epocale” perché mostra come l’epicentro della finanzia mondiale si stia spostando sempre più verso la Cina, ora in grado di attirare gli investimenti dei big di Wall Street – Citigroup, JP Morgan e Morgan Stanley saranno tra i maggiori beneficiari dell’offerta – e di mettere direttamente sul mercato, ad Hong Kong o nella Cina continentale, alcuni “fiori all’occhiello” della propria economia, mettendo al riparo giganti digitali delle dimensioni di Netease o JD.com da eventuali ritorsioni sui mercati nord-americani» (Internazionale).

#########AGGIORNAMENTO########
NdR
– Come ad aprire l’Election Day Usa, martedì 3 novembre** – a seguito delle modifiche legislative operate il giorno prima dalle autorità di Pechino – la Borsa di Shanghai ha sospeso l’Ipo.
https://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2020/11/03/alibaba-borsa-shanghai-sospende-lipo-di-ant-group_c04e5f9f-ad32-4936-98e2-c76526525ba5.html

https://www.cnbc.com/2020/11/03/ant-group-ipo-in-shanghai-suspended.html
https://www.bing.com/news/search?q=alibaba+quotazione
** (considerato che il fuso orario EST (UTC-5) in cui rientra la costa Est Usa, durante l’ora solare, è di 13 ore indietro al CHINA STANDARD TIME – (UTC+8).
Infatti il lancio Ansa è delle 16.04 di Roma (UTC+1) le 23.04 in Cina (UTC+8) e quello di Cnbc è delle 8.41 a New York (UTC-5) le 21.41 in Cina.

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