“Giustizia” di classe

Condividendone il contenuto, ripubblichiamo questo articolo tratto dal n.407 in uscita de “Il Partito Comunista”

Il 6 gennaio la “giustizia” si è beffata ancora una volta dei lavoratori, delle vittime delle stragi del profitto, dei loro parenti e cari.

Undici anni e mezzo fa, la notte del 29 giugno del 2009, a Viareggio il deragliamento di un treno che trasportava propano liquido (gpl) provocò, da uno dei vagoni cisterna, una vasta fuoriuscita di gas che subito invase la stazione, il suo sedime e l’abitato adiacente. L’esplosione e l’incendio che dopo pochi attimi ne scaturirono arsero vive 32 persone, fra cui tre bambini colti nel sonno nei loro letti e quattro ragazzi. Decine i feriti gravi che porteranno le conseguenze delle terribili ustioni per tutta la vita.

La IV Sezione della Corte di Cassazione, ribaltando le sentenze di primo e secondo grado, ha cancellato l’aggravante di violazione delle norme di sicurezza sul lavoro, determinando l’assoluzione di tutte le Società coinvolte e la caduta in prescrizione delle accuse di omicidio colposo plurimo, derubricate a semplice “disastro ferroviario”.

Possiamo immaginare la rabbia dei parenti delle vittime, che si sono costituiti nell’associazione “Il mondo che vorrei”. Alcuni di questa associazione hanno partecipato attivamente alle assemblee del CLA (Coordinamento Lavoratori e Lavoratrici Autoconvocati per l’Unità della Classe) che tra i suoi obiettivi mette in primo piano la lotta sui temi della sicurezza e della salute sui luoghi di lavoro e contro la repressione di chi denuncia situazioni di rischio, nella guerra quotidiana tra capitale e lavoratori.

Il messaggio della sentenza è chiaro: le aziende possono tagliare i costi sulla sicurezza per garantirsi migliori profitti, al prezzo della vita e della salute di lavoratori e popolazione, ma saranno tutelate in sede processuale. I dirigenti saranno eventualmente colpiti da pene le più miti possibile. Assai più spesso lo saranno i lavoratori, indicati quali responsabili coi loro “errori umani”. Lavoratori e parenti delle vittime si guardino dall’avviare procedimenti giudiziari essendo più che plausibile conclusione di questo quadro il pagamento delle spese processuali.

Pregna di significato politico la vicenda. Mauro Moretti all’epoca della strage era Amministratore Delegato delle Ferrovie dello Stato. Ingegnere, entrò in ferrovia come ispettore nel 1978, divenendo presto dirigente. Alla carriera aziendale affiancò quella nel maggior sindacato di regime italiano, la Cgil, arrivando a entrare nella segreteria nazionale della Filt Cgil, dal 1986 al 1990. Erano gli anni in cui il sindacalismo di base dava filo da torcere all’azienda, quasi sopravanzando i sindacati di regime, organizzando duri scioperi, a cui la borghesia, col pieno sostegno di Cgil Cisl e Uil, rispose con la legge “antisciopero” 146 del 1990, che è ancora oggi uno dei principali baluardi che il ritorno alla lotta della classe lavoratrice dovrà abbattere.

Dall’altro lato della barricata – in azienda, nel sindacato, fra le classi – nel giugno 2013 il ferroviere viareggino Riccardo Antonini – militante e dirigente dell’area di opposizione sindacale di classe in Cgil, oggi fra gli animatori del CLA – vide confermato dal tribunale di Lucca il suo licenziamento per “rottura del vincolo fiduciario tra azienda e dipendente”, avendo egli agito come consulente dei familiari delle vittime nel processo.

Nel 2014, Moretti passò dalla sedia di Amministratore Delegato delle Ferrovie dello Stato a quella – sempre di Amministratore Delegato – di Finmeccanica (ora Leonardo).

Oggi, la sentenza della Cassazione – depotenziando l’impianto accusatorio e rinviando a un ulteriore processo di appello – offre ulteriori garanzie di protezione a questo bonzo sindacale divenuto manager statale.

Non solo questo quadro mostra con perfetto nitore l’inquadramento definitivo della Cgil nel regime politico borghese.

Mostra anche quanto sia vuota e mistificante l’idea che vuole nell’interventismo statale in economia capitalista uno strumento di tutela dei lavoratori.

Questa ideologia è ben radicata in tutto il sindacalismo conflittuale – dalla opposizione in Cgil, alla Cub, all’Usb – e ha origini lontane, fin dai bonzi della CGdL rossa (1906-1927), Rigola e D’Aragona, che finirono per liquidare il sindacato e abbracciare il corporativismo fascista, soprattutto dal primo considerato – a ragione – il più coerente e conseguente realizzatore di quell’ideologia riformista che, dopo la cesura storica della prima guerra mondiale e del tradimento della Seconda Internazionale, non poteva mai più essere un’ala della autonoma politica della classe proletaria ma solo una articolazione del partito unico borghese.

Un bonzo sindacale, nemico giurato del sindacalismo di classe, diviene massimo dirigente di un’azienda statale, ne organizza la ristrutturazione, i tagli dei costi, i licenziamenti, cause di innumerevoli incidenti mortali. Lo Stato lo promuove, lo premia (di 9 milioni e 400mila euro la “buonuscita” da Federmeccanica nel 2017), lo difende con la sua magistratura.

La macchina statale borghese è il baluardo dello sfruttamento dei lavoratori nel capitalismo e meglio lo difende finché riesce a mascherarsi la dittatura borghese con la democrazia. Per emanciparsi dal capitalismo va distrutta e sostituita.

Con essa è baluardo dello sfruttamento l’ideologia del “diritto”: la verità materiale e storica è che tutti i supposti “diritti” dei lavoratori – a un salario adeguato, alla salute, all’istruzione… – sono temporanei e revocabili di fronte al solo vero “diritto” permanente, che non può esser messo in discussione nella società del Capitale, quello del Profitto a realizzarsi, ad ogni costo.

I proletari hanno solo dei bisogni da realizzare a discapito degli interessi padronali e, infine, sul cadavere del capitalismo. Non hanno diritti da difendere in questa società.

Il lungo elenco di incidenti e infortuni, spesso mortali, nel settore del trasporto su rotaia, è un segnale dell’acuirsi della lotta tra capitali in competizione, frutto dell’avanzante inesorabile crisi dell’economia capitalistica, che si traduce in taglio dei costi e aumento dei ritmi di lavoro, per garantire profitti e distribuzione di dividendi tra gli azionisti.

Il giorno prima della sentenza un operaio di una ditta moriva schiacciato da un carrello alla stazione di Jesi (Ancona). Il 7 gennaio era anche il sedicesimo anniversario dell’incidente ferroviario a Crevalcore (Bologna), nel quale morirono 17 persone, fra cui 5 ferrovieri. Nel processo la colpa fu data al macchinista, deceduto nell’incidente (comunicato del CLA).

Nel suo comunicato a commento della sentenza dell’8 gennaio il CLA ha indicato la necessità di una risposta unitaria del sindacalismo conflittuale, nel quadro di una lotta per la salute e la sicurezza sui posti di lavoro. Quale obiettivo di lotta sindacale ha suggerito l’abolizione del cosiddetto “obbligo di fedeltà” all’azienda dell’art. 2105 del Codice Civile del 1942, in virtù del quale tanti lavoratori e militanti sindacali sono stati colpiti da ritorsioni aziendali, spesso da licenziamenti, come abbiamo visto essere accaduto anche nella vicenda della strage di Viareggio e come accaduto nel quadro dell’epidemia ancora in corso.

Questa indicazione ci pare più aderente alla realtà materiale dei problemi dei lavoratori e del movimento sindacale rispetto alla proposta avanzata dalla dirigenza dell’Usb di una legge che introduca il reato di “omicidio sul lavoro”.

Intanto, battersi per abolire una legge antioperaia è cosa meno aleatoria dal farlo per la introduzione di una legge che dovrebbe difendere i lavoratori attraverso… il procedimento giudiziario, circa la cui natura tutto quanto sin qui scritto esprime il nostro giudizio, che è quello del marxismo ortodosso. Ciò senza entrare nel merito del processo legislativo e parlamentare necessario alla approvazione di una simile legge, nonché alla definizione del suo testo.

Proposte come quella avanzata dalla dirigenza dell’Usb appaiono velleitarie se non sensazionalistiche, figlie di un riformismo fuori tempo e fuori dalla storia, che illude i lavoratori di poter difendere i loro bisogni appellandosi ai “Diritti”, alla “Democrazia”, al bene del “Paese”, tutti termini rigorosamente scritti con le iniziali maiuscole e tutti parte di quell’armamentario ideologico antimarxista che la vicenda di Viareggio, e tante altre, smentiscono senza appello.

La strada da seguire è un’altra, quella che tenta con pazienza di sostenere l’unità dei lavoratori in lotta e di operare per la realizzazione di un fronte unitario del sindacalismo di base e conflittuale, contro l’opportunismo dei rispettivi gruppi dirigenti, che antepongono gli interessi delle proprie microscopiche organizzazioni a quelli della lotta di classe.

Su questa strada e per questo scopo si è costituito e interviene nelle lotte dei lavoratori il CLA. E su questa strada si batterà il proletariato per combattere la guerra di classe contro il capitale.

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