Luxemburg. Riforma sociale o rivoluzione?

Un testo sempre attuale, per riconoscere e contrastare le pratiche opportuniste

La battaglia intransigente al riformismo ha sempre costituito una delle priorità nell’azione politica dei rivoluzionari, che fino ai giorni nostri hanno lottato per smascherare pubblicamente gli “agenti della borghesia nel movimento operaio”, come li definì Lenin, cioè quei dirigenti politici e sindacali che con le loro pratiche opportunistiche svendono gli interessi dei lavoratori e delle masse oppresse, “i veri propagatori di riformismo e di sciovinismo, che durante la guerra civile del proletariato contro la borghesia si pongono necessariamente, e in numero non esiguo, a lato della borghesia”1.
Questa “aristocrazia operaia” corrotta dal capitale ha provocato danni enormi fino ai giorni nostri rispetto all’interesse di classe, rendendosi corresponsabile a qualsiasi latitudine e longitudine degli attacchi del padronato contro le classi subalterne e, di conseguenza, del continuo precipitare delle condizioni di vita materiale delle persone. Il tradimento compiuto dai riformisti ha contribuito nel tempo a erodere profondamente la fiducia delle masse popolari verso il marxismo, cui questi rinnegati hanno fatto e continuano a fare riferimento in maniera abusiva.
Giusto per riferirci al caso italiano, basti pensare ai dirigenti di quei partiti che – nascondendosi dietro la falce e martello – hanno usato il malcontento popolare e le ragioni del mondo del lavoro come trampolino di lancio verso le poltrone e i palazzi istituzionali, partecipando ai governi borghesi e votando dai loro scranni leggi sul precariato, missioni militari e finanziarie di lacrime e sangue.

Il dibattito sui compiti della socialdemocrazia

La giovane rivoluzionaria Rosa Luxemburg, di origini polacche, arrivò in Germania, dalla Svizzera, proprio nel periodo in cui iniziò il dibattito politico aperto da Eduard Bernstein sugli obiettivi della socialdemocrazia. Bernstein era un dirigente del Partito Socialdemocratico Tedesco (Spd), primo partito socialista sorto in Europa, nel 1875, che esercitò una notevole influenza nella Seconda Internazionale dei Lavoratori.
Con una serie di articoli pubblicati nella Neue Zeit, organo teorico della Spd, e con il libro I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, pubblicato nel 1899, Bernstein innescò un intenso dibattito che darà origine a una contrapposizione, nella Spd come negli altri partiti socialisti europei, fra una tendenza revisionista (o riformista), che appunto rivedeva i fondamenti dell’analisi marxista rifiutando la rivoluzione a beneficio di un’azione politica riformista da svolgersi all’interno del quadro istituzionale, e una tendenza ortodossa (o rivoluzionaria), che in linea con l’insegnamento di Marx respingeva ogni ipotesi gradualista e istituzionalista.
L’importanza di Bernstein, e del dibattito da lui avviato, sta nel fatto che le sue posizioni politiche costituiscono il primo tentativo nella storia di dare delle basi teoriche alla pratica opportunista, una pratica che era già presente nei sindacati e nei partiti, e alla quale Bernstein cercò di fornire dignità e legittimità.
La prima risposta a Bernstein fu fornita proprio da Rosa Luxemburg – da poco iscritta alla Spd, ma già dirigente nota a livello internazionale – in una serie di articoli, pubblicati fra il 21 e il 28 settembre del 1898 su Leipziger Volkszeitung, che verranno poi raccolti nella prima parte del libro Riforma sociale o rivoluzione?, uscito nel 1899 e, con alcune modifiche, in seconda edizione nel 1908.

Riforma sociale o rivoluzione? Un aut aut… opportunistico

Già nella prefazione del suo libro, Rosa Luxemburg chiarisce come i due concetti evocati dal titolo (riforma sociale e rivoluzione) nella prassi politica marxista non possano essere considerati in contrapposizione. I rivoluzionari devono infatti lottare quotidianamente per i diritti e per il miglioramento delle condizioni di vita delle masse oppresse, ovverosia per le riforme. Queste lotte, tuttavia, non costituiscono il fine ultimo dell’attività rivoluzionaria, ma un mezzo per raggiungere lo scopo della rivoluzione socialista e della presa del potere politico da parte del proletariato: “la lotta per le riforme è il mezzo e la rivoluzione sociale lo scopo”.
È nella teoria di Bernstein che per la prima volta la riforma e la rivoluzione vengono poste in contrasto. Questa teoria per Rosa Luxemburg “porta ad una sola conclusione: rinunciare alla rivoluzione sociale, cioè allo scopo finale della socialdemocrazia, e fare viceversa della riforma sociale lo scopo anziché un semplice mezzo della lotta di classe”. Così come lo stesso Bernstein riconosce chiaramente quando sostiene che “lo scopo finale, qualunque esso sia, è nulla, il movimento è tutto”.
La rinuncia alla rivoluzione è un elemento che ha sempre caratterizzato i riformisti, sia quelli – come Bernstein – che svilupparono le loro pratiche opportunistiche prima dei fenomeni rivoluzionari del Novecento, sia di quelli – attuali – che le esperienze rivoluzionarie del proletariato le hanno del tutto rimosse e, nel migliore dei casi, si limitano a citarle sporadicamente, ma soltanto come esempio storico ormai relegato in soffitta e il cui richiamo è funzionale unicamente a fornire qualche suggestione a militanti volutamente lasciati a digiuno di formazione.
La questione in gioco era di vitale importanza allora, e continua ad esserlo oggi, perché porre l’aut aut fra riforma e rivoluzione per i marxisti significa porsi il dilemma shakespeariano fra essere e non essere: “ciò che è in gioco – e tutti nel partito devono esserne coscienti – non è questo o quel metodo di lotta, questa o quella tattica, ma l’intera esistenza del movimento socialista”.
Con Bernstein gli opportunisti trovarono finalmente il loro referente teorico, e nel contempo Bernstein con la sua teorizzazione tentava di garantire “il predominio degli elementi piccolo-borghesi giunti al partito e di modificare secondo il loro spirito la prassi e gli scopi del partito”2.

Sul presunto adattamento del capitalismo

Bernstein poggiava la sua revisione del marxismo sulla considerazione che il crollo del sistema capitalista diventava ai suoi occhi sempre più improbabile. Vedeva infatti nel capitalismo una capacità di adattamento che gli consentirebbe di superare le crisi cicliche e di garantire un progresso costante nelle condizioni di vita del proletariato. Quest’ultimo, di conseguenza, non avrebbe motivo di porsi come obiettivo la rivoluzione: infatti, se la teoria socialista pone come premessa della rivoluzione una crisi violenta del sistema, la presunta capacità del sistema stesso di superare costantemente le proprie convulsioni e di evolversi in senso democratico renderebbe impossibile, e allo stesso tempo superflua, la rivoluzione socialista.
La rivoluzione cessa in tal modo di essere una necessità obiettiva, lasciando spazio alla fede in un capitalismo buono che inevitabilmente porterà la concordia sociale e il benessere generale, fede ancora oggi molto diffusa e la cui fragilità mai come oggi è smentita dai fatti e dalla loro testa dura.
Uno degli strumenti di adattamento dell’economia capitalista sarebbe secondo Bernstein il sistema creditizio. Tuttavia, come nota Rosa, la più importante funzione assolta dal credito nell’economia capitalista consiste “nell’accrescere la capacità di espansione della produzione e nel facilitare lo scambio”. Dunque, se le crisi nascono notoriamente dalla “contraddizione tra la capacità e la tendenza espansiva della produzione e la limitata capacità di consumo del mercato” risulta logico che il credito sia “il mezzo specifico più idoneo a portare questa contraddizione alla fase critica”, in quanto aumenta la capacità di produzione spingendola “continuamente a oltrepassare i limiti del mercato”, provoca la sovrapproduzione e “contribuisce alla distruzione radicale delle forze produttive che esso stesso ha messo in moto”. Durante le crisi il credito si ritrae, riducendo al minimo “la capacità di consumo del mercato”. Contrariamente a quanto sostiene Bernstein, quindi, il credito “lungi dall’essere un mezzo per evitare o anche per attenuare le crisi, ne è al contrario un fattore determinante”. Il sistema creditizio esaspera semmai le contraddizioni insite nel sistema capitalista e ne “accelera l’evoluzione verso il suo annientamento, il crollo”3.
Le cose non vanno meglio a Bernstein rispetto a quello che egli ritiene un altro mezzo di adattamento del capitalismo: le organizzazioni imprenditoriali. Secondo lui, tali organizzazioni riuscirebbero a regolamentare la produzione, ponendo fine all’anarchia, e ad inibire la comparsa di crisi. Su questo argomento, che Lenin svilupperà soprattutto nel saggio su L’Imperialismo, in cui analizza la funzione di cartelli e trust nel quadro del capitalismo monopolistico e oligopolistico, già Rosa Luxemburg rispose in maniera chiara: “lo scopo ultimo e l’azione delle organizzazioni imprenditoriali consistono nell’influire, escludendo la concorrenza in un determinato ramo della produzione, sulla ripartizione della massa dei profitti ottenuti sul mercato”. Per cui, “le organizzazioni imprenditoriali agiscono in senso esattamente contrario all’eliminazione dell’anarchia industriale”4, contribuendo semmai ad accentuarne le contraddizioni interne, ad accrescere l’antagonismo fra produttori e consumatori, fra capitale e lavoro, nonché fra i singoli Stati capitalisti.

Sul ruolo dei sindacati nella società capitalista

Bernstein e soci sono convinti che senza alcuna rivoluzione si potrà pervenire a una realizzazione progressiva del socialismo, e fanno affidamento in primo luogo sui sindacati, le cui lotte, scrive utopisticamente Conrad Schmidt, “porteranno un controllo sociale sempre più esteso sulle condizioni della produzione”, limiteranno “sempre più i diritti del proprietario capitalista riducendone il ruolo a quello di un semplice amministratore”, finché i lavoratori non toglieranno al capitalista “la direzione e l’amministrazione dell’impresa”.
In realtà, come sottolineava la Luxemburg, la funzione essenziale dei sindacati “consiste nel permettere ai lavoratori di realizzare la legge capitalista dei salari, cioè la vendita della forza lavoro al prezzo vigente sul mercato”, ma i sindacati non possono mai eliminare la stessa legge dei salari. Nella migliore delle ipotesi, le organizzazioni sindacali possono “mantenere lo sfruttamento capitalista nei limiti che considerano «normali» per un determinato periodo, ma in nessun modo possono eliminare, neanche gradualmente, lo sfruttamento stesso”5.
I sindacati si limitano a battaglie immediate, come quelle per i salari e per la riduzione delle ore di lavoro, cercando di regolamentare lo “sfruttamento capitalista secondo le fluttuazioni del mercato: dalla natura stessa delle cose rimane loro preclusa ogni influenza sul processo di produzione”. E con grande acume, Rosa Luxemburg osservava – in contrasto con le profezie dei riformisti – che il periodo che si apriva sarebbe stato segnato non da un’ascesa del movimento sindacale, ma piuttosto da crescenti difficoltà.
Tanto più in periodi di crisi, le rivendicazioni immediate dei sindacati sono destinate a scontrarsi col giro di vite dei padroni, per cui “per necessità la lotta si riduce sempre più alla semplice difesa dei diritti già ottenuti, e anche questa diviene sempre più difficile”. È facile constatare infatti come le conquiste ottenute dai lavoratori nei decenni scorsi, in Italia e altrove, all’interno di un quadro economico e politico internazionale ben diverso, successivamente siano state spazzate via una per una dai padroni (che recentemente hanno ottenuto anche lo scalpo dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori).
Le riforme si scontrano infatti “con i limiti degli interessi del capitale”6. Lo Stato è l’organizzazione politica della classe economicamente dominante, e pertanto può muoversi minimamente in direzione dell’interesse della “popolazione” solo fin quando tale interesse non mette in discussione il profitto e il potere del padronato. In questo quadro, Rosa afferma che i sindacati, non potendo promuovere una politica offensiva verso il capitale, non sono altro – nella migliore delle ipotesi – che “la difesa organizzata della forza lavoro contro gli attacchi del profitto, l’espressione della resistenza della classe operaia alla tendenza oppressiva dell’economia capitalista”, una resistenza che assume le sembianze di una “fatica di Sisifo”7. Quando non sono invece dei veri e propri strumenti di estinzione del conflitto sociale a vantaggio dei padroni, come oggi in Italia nel caso dei sindacati della triplice, ormai venduti al padronato fino al punto da non simulare nemmeno più una sia pur tenue forma di “resistenza”.

Sull’azione legale e sul timore della rivoluzione “prematura”

In un periodo in cui, in tutta Europa, si andava estendendo gradualmente il diritto al voto (da lì a poco si giungerà nei Paesi occidentali al suffragio universale maschile), i riformisti consideravano lo sviluppo della democrazia come una strada spianata verso il socialismo.
Il già citato Schmidt, ad esempio, mettendo da parte ogni analisi di classe, riteneva la conquista della maggioranza nei parlamenti borghesi come la via per realizzare gradualmente il socialismo. Bernstein vedeva nell’attività legale svolta all’interno del sistema borghese l’azione metodica dell’intelletto, nell’azione rivoluzionaria una violenza spontanea dettata dall’istinto. In questo modo, condannava il marxismo rivoluzionario accusandolo di avallare le teorie blanquiste sull’esercizio della violenza. La riforma legislativa e la rivoluzione per la conquista del potere politico, in realtà, contrariamente all’impostazione manichea del nostro riformista, non sono “metodi diversi del progresso storico, che si possono scegliere a piacere come si sceglierebbero al buffet delle salsicce calde o delle carni fredde: sono aspetti diversi nello sviluppo della società classista”.
E se è vero che la classe proletaria deve svolgere anche un’azione legale all’interno delle istituzioni, è altrettanto vero che la sua azione non può essere circoscritta a quell’ambito e che non si deve mai perdere di vista l’obiettivo rivoluzionario, ben sapendo che “in ogni epoca la rivoluzione giuridica è un semplice prodotto della rivoluzione”. Difatti, “l’azione legale delle riforme non ha in sé nessuna forza motrice indipendente dalla rivoluzione; in ogni periodo della storia, si muove solo nella direzione che gli è stata impressa dalla spinta dell’ultima rivoluzione e per il tempo in cui questa spinta continua a farsi sentire, per parlare concretamente, nel quadro di quell’assetto sociale creato dall’ultima rivoluzione”.
È profondamente scorretto presentare l’azione riformista “come una rivoluzione diluita nel tempo e la rivoluzione come una riforma concentrata”. Ciò che contraddistingue riforma e rivoluzione non è l’aspetto quantitativo, cioè la durata dell’azione, ma l’aspetto qualitativo, ovverosia il loro contenuto. Chi sceglie la riforma piuttosto che la rivoluzione per la conquista del potere politico, “non sceglie in realtà una via più pacifica, più sicura, più lenta, verso la stessa meta, ha in mente un’altra meta”8!
Bernstein sostiene infatti che porre il problema della conquista del potere politico da parte del proletariato è ormai insensato. Esprime il timore che se il proletariato giungesse al potere troppo presto potrebbe andare incontro a una pesante disfatta, e che dunque deve mettere da parte il programma rivoluzionario. Una simile dottrina, come si evince facilmente, è destinata ad abbandonare all’inerzia e all’apatia il proletariato. Anche in questo caso è vero l’opposto rispetto a quanto sostenuto dai riformisti, e cioè che la classe proletaria non deve mai abbandonare il suo programma rivoluzionario. Chi sostiene che in qualche momento storico il proletariato debba rinunciare ad esso, in realtà sta dicendo che deve rinunciarci in ogni momento.
“La rivoluzione prematura, il cui spettro turba i sonni di Bernstein, minacciosa come una spada di Damocle, non può essere scongiurata da nessuna preghiera né da suppliche”. In primo luogo perché la rivoluzione sorge da una situazione politica ed economica in cui le contraddizioni del sistema sono giunte a un certo livello di maturazione, e non è – come utopisticamente sostenuto dai blanquisti – un colpo di mano operato in qualsiasi momento da una minoranza decisa. In secondo luogo, poiché “uno sconvolgimento così formidabile come il passaggio dalla società capitalista alla società socialista non può avvenire in un colpo solo”, ma è il risultato di una lotta ad oltranza ed accanita, “nel corso della quale il proletariato verrà ricacciato indietro più d’una volta”9. E saranno proprio questa lotta ad oltranza, questi passi avanti, queste sconfitte, che forniranno al proletariato la maturità politica necessaria a centrare la vittoria definitiva.
In questo quadro, parlare di “rivoluzione prematura” significa essere al di fuori delle reali dinamiche politiche e ragionare in termini meramente meccanici, al di fuori di un’impostazione dialettica e di classe. Prima di vincere definitivamente, infatti, è molto probabile che più volte il proletariato debba conquistare il potere “prematuramente”. E il timore della conquista prematura del proletariato in fondo esprime soltanto il timore della conquista del potere del proletariato.
I riformisti di ogni epoca abbandonano la lotta di classe, predicano praticamente la riconciliazione con la borghesia. Negano di fatto la stessa esistenza delle classi sociali in lotta, al punto da fare apparire un mistero persino la stessa esistenza della socialdemocrazia e le ragioni della sua nascita! Per fare sparire la lotta di classe, Bernstein deve difendere la borghesia, considerandola moralmente sana e politicamente progressiva, e sostenere che negli Stati dell’Europa occidentale “l’atteggiamento delle classi borghesi di fronte al movimento socialista è al massimo difensivo, non certo oppressivo” (Vorkwärts, 26 marzo 1899)10.
Il riformista non sceglie dunque di rovesciare il sistema, ma soltanto di addolcirlo per limitare i danni e ridurre lo sfruttamento, coerentemente con l’utopia che si possano abolire le enormi storture del capitalismo senza abolire il capitalismo stesso che le produce. La dimensione velleitaria del riformismo, come sottolineava Rosa, è evidente nel fatto che, mentre nell’epoca feudale la servitù della gleba era determinata da precisi rapporti giuridici, nell’epoca attuale “nessuna legge obbliga il proletariato a soggiacere al giogo del capitale, bensì ve lo obbliga il bisogno, la mancanza di mezzi di produzione”. Alla luce del fatto che lo sfruttamento non si basa su disposizioni giuridiche ma su fattori economici, come si può pensare di potere “abolire la schiavitù del lavoro salariato progressivamente «per via legale», se essa non è tradotta in leggi?”11.

Sull’allargamento dei diritti politici e la “democrazia”

La storia successiva mostra chiaramente la debolezza teorica del riformismo, e già allora Rosa Luxemburg insisteva sul fatto che le istituzioni democratiche nell’ambito del sistema capitalista sono soltanto “strumenti degli interessi della classe dominante”, vuoti involucri che servono alle classi dirigenti per legittimarsi pubblicamente. A riprova di ciò il fatto che quando vede minacciata i propri interessi, “le stesse forme democratiche vengono sacrificate dalla borghesia e dalla sua rappresentanza statale”12. Affermazioni che da lì a qualche anno conosceranno una drammatica dimostrazione con il tramonto degli Stati liberali e la concomitante affermazione di regimi totalitari in diversi Paesi europei. Scriveva allora Rosa: “oggi per la borghesia la democrazia è diventata un elemento in parte superfluo, in parte di ostacolo; per la classe operaia è necessaria, addirittura indispensabile”13.
Per il revisionismo invece la democrazia è una tappa necessaria del cammino progressivo della storia, all’interno del quale le esplosioni reazionarie “non sono altro che «sussulti» fortuiti ed effimeri”. Addirittura Bernstein arriva a sostenere che l’involuzione reazionaria della borghesia è dovuta all’ascesa della lotta di classe e al timore rispetto ai suoi sviluppi: dal suo punto di vista, dunque, il proletariato “per rassicurare il liberalismo spaventato e farlo uscire dalla tana della reazione in cui si è rifugiato”14, dovrebbe rinunciare alla lotta di classe e allo scopo finale del socialismo! Conclusione che fa cadere tutto il ragionamento di Bernstein in un circolo vizioso, smentendo la sua teoria secondo cui la democrazia sarebbe il presupposto della vittoria del socialismo. È semmai vero l’esatto opposto: né le riforme sociali né la democrazia intaccano il sistema capitalista, ma al contrario rischiano di consolidarlo nella misura in cui alimentano false illusioni e distolgono il proletariato dall’obiettivo rivoluzionario e dalla conquista del potere politico. Dalla prospettiva comunista, “la lotta sindacale e quella parlamentare vengono concepite come mezzi per dirigere ed educare gradualmente il proletariato alla conquista del potere politico” e non come fine in sé. Le lotte sindacali e politiche hanno il compito di preparare “il proletariato, cioè il fattore soggettivo della trasformazione socialista, a realizzare questa trasformazione”, devono costituire una palestra di guerra.
La lotta sindacale e la lotta politica sono importanti dalla prospettiva comunista perché aiutano il proletariato a maturare la consapevolezza che non potrà mutare la propria condizione soltanto attraverso quel tipo di lotte, e che potrà ottenere il risultato perseguito soltanto attraverso la conquista del potere politico. La mistificazione operata dai riformisti, che concepiscono l’azione sindacale e quella parlamentare come fine piuttosto che come mezzo, ritenendo quel tipo di azioni capaci di operare direttamente in direzione della socializzazione dell’economia capitalista, finiscono con lo svuotare di significato quel tipo di lotte che “cessano di essere mezzi di educazione della classe operaia per prepararla alla conquista del potere” e si riducono a politica di compensazione, di conciliazione, “mercato di vacche”.

Sulle crisi del sistema capitalista

La concezione riformista, secondo cui gradualmente si raggiungerà il superamento del capitalismo, “potrebbe esser vera soltanto se si potesse costruire una ininterrotta catena di riforme sociali sempre più estese che porterebbero dal regime attuale capitalista al regime socialista”. Tuttavia, questa è un’idea profondamente ingenua perché inevitabilmente “secondo la natura delle cose la catena si spezzerà molto presto”. Il socialismo potrà nascere soltanto “dall’esasperazione delle contraddizioni interne dell’economia capitalista e dalla presa di coscienza da parte della classe operaia che comprenderà la necessità di sopprimerle attraverso una rivoluzione sociale”15.
In questo quadro, compito dei comunisti è portare a maturità le contraddizioni capitaliste preparando la classe alla rivoluzione. I riformisti, al contrario, pur riconoscendo le contraddizioni capitaliste, cercano di attenuarle, di smussarle (di concertare, per usare un’espressione oggi diffusa), nella convinzione che l’attuale sistema economico verrà superato inevitabilmente attraverso riforme graduali e che si tratta soltanto di attendere.
Significativa rispetto alla mistificazione operata dai riformisti è l’analisi che essi fanno delle crisi interne al sistema capitalista, da loro considerate semplicemente come momenti di disordine temporaneo. Una concezione ingenua che può avere un senso solo dall’ottica del singolo capitalista, ma che perde di vista completamente la visione globale della realtà. Ciò che i riformisti non comprendono è che tali momenti di disordine rappresentano “fenomeni organici inscindibili dall’insieme dell’economia capitalista”, poiché costituiscono l’unico strumento di cui il capitalismo dispone per “correggere periodicamente lo squilibrio fra l’illimitata capacità di espansione della produzione e i limiti ristretti del mercato”. Le crisi di sistema rappresentano insomma l’unico modo in cui il capitalismo può arrestare la caduta dei profitti e rianimarsi.

Il riformismo come ostacolo sulla strada della rivoluzione

Il tratto caratteristico dell’opportunismo è “l’avversione alla teoria”, poiché la teoria marxista rivoluzionaria pone dei limiti rigorosi all’azione pratica, e dunque i riformisti tendono a reclamare “la libertà di manovra, cioè a separare la pratica dalla teoria, a rendersene indipendenti”. Ma è altrettanto vero che il riformismo “per affermare la sua esistenza contro i nostri principi, doveva logicamente misurarsi con la teoria stessa”, cercando di costruirne una propria, attorno a cui raccogliere tutti gli elementi opportunisti.
Ed è altresì vero che inevitabilmente la teoria si ritorce puntualmente contro di loro, chiedendo conto dei loro fallimenti. Alla prova del nove, il riformismo “non è in grado di costruire una teoria positiva, capace di resistere, anche per poco, alla critica”, e la sua inconsistenza è stata smentita inesorabilmente dai fatti.
Quello di Bernstein è il stato il primo tentativo di fornire una base teorica agli opportunisti, ma allo stesso tempo è stato anche l’ultimo, dato che i riformisti non hanno più nulla da aggiungere. Il marxismo rivoluzionario è la dottrina capace non solo di confutare teoricamente il riformismo, ma anche di spiegare dialetticamente la natura del riformismo stesso come “fenomeno storico all’interno dell’evoluzione del partito”16. Data la grandissima espansione del movimento operaio, e l’enormità del suo compito, era inevitabile, come Marx aveva previsto, che ci sarebbero stati disorientamenti, scetticismo, sfiducia, incertezza all’interno di esso, e che tali sentimenti sarebbero stati capitalizzati dagli opportunisti.
Il marxismo ci restituisce il riformismo per quello che è: “lo strumento predestinato che, esprimendo al proletariato una momentanea debolezza del suo slancio, lo ha costretto a rigettarlo lungi da sé con un gesto di riso sprezzante”17.

Note

  1. V. LENIN, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, Editori Riuniti, 1964, prefazione del 1920.
  2. R. LUXEMBURG, Riforma sociale o rivoluzione?, Prospettiva Edizioni, Roma, 2009, prefazione, pp. 15-16.
  3. Ivi, Parte I, “L’adattamento del capitalismo”, pp. 21-23.
  4. Ivi, Parte I, “L’adattamento del capitalismo”, p. 24.
  5. Ivi, Parte I, “La realizzazione del socialismo per mezzo di riforme sociali”, pp. 30-31.
  6. Ivi, Parte I, “La realizzazione del socialismo per mezzo di riforme sociali”, pp. 34-35.
  7. Ivi, Parte II, “I sindacati, le cooperative e la democrazia politica”, pp.62.
  8. Ivi, Parte II, “La conquista del potere politico”, pp. 69-70.
  9. Ivi, Parte II, “La conquista del potere politico”, pp. 76-77.
  10. Ivi, Parte II, “Il crollo”, p.79
  11. Ivi, Parte II, “La conquista del potere politico”, pp. 71-72.
  12. Ivi, Parte I, “La politica doganale e il militarismo”, p.41
  13. Ivi, Parte II, “La conquista del potere politico”, p. 74.
  14. Ivi, Parte II, “I sindacati, le cooperative e la democrazia politica”, pp. 64-67.
  15. Ivi, Parte I, “Conseguenze pratiche e carattere generale del revisionismo”, pp. 43-46.
  16. Ivi, Parte II, “L’opportunismo in teoria e pratica”, pp. 82-84.
  17. Ivi, Parte II, “L’opportunismo in teoria e pratica”, pp. 82-87.

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