Delle vandee, degli apericena saltati e… delle future avanguardie di un rinnovato conflitto sociale

Esistono le Vandee. Territori che la storia ha dimenticato. Enclavi che l’ineguale sviluppo del Paese ha condannato all’arretratezza materiale e culturale.

Posti dove in virtù di qualche maleficio o, molto più probabilmente, per la collocazione periferica rispetto alle aree sviluppate del Paese, si raccoglie la zavorra, il fallimento, il parassitismo.

Contrade in cui il capitale non produce merci e nemmeno quegli anticorpi sociali che la produzione di merci si porta dietro.

Città dove si consuma ricchezza prodotta altrove, dove si amministra la lenta agonia di forze sociali ormai obsolete e inutili. Dove si è fatta beneficenza in cambio di consenso perché l’unico valore aggiunto che i ceti sociali agonizzanti di quei luoghi possono dare, l’unico merito che possono vantare, è l’essere appunto la zavorra del Paese.

Il piombo ai piedi che, nello scontro generale fra le classi in lotta, è la sicura retrovia della reazione.

Caltanissetta è una Vandea. Un relitto del passato. L’immagine di cosa sarebbe il mondo se fosse possibile vivere senza svolgere nessun ruolo attivo nella produzione della propria esistenza, vivendo di rendita e degli zecchini raccolti sugli alberi.

Un puro costo nel bilancio complessivo del capitale nazionale sostenuto fin quando i vantaggi “politici” prodotti dalla popolazione superano l’antieconomicità del loro mantenimento.

E la Vandea sente istintivamente che il momento è brutto assai, troppi concorrenti a dividersi un osso ormai spolpato. Troppe bocche da sfamare. Vuoi vedere che alla fine non rimarrà nulla per noi?

Il popolo non ne può più. Rivendica il suo diritto di primogenitura nella distribuzione degli “aiuti”.
Urla, si agita, santìa.
Il suolo “patrio”, dalla collina di Babbaurra, luogo degli epici scontri di un passato borbonico fino a Pian del lago, che pure essendo più o meno grande come Malta, non è in grado di dare riparo a qualche decina di migranti ammalati, è calpestato da orde di potenziali untori che rendono irrespirabile l’aria e pericoloso perfino uscire di casa.

Sui siti che fanno tendenza, istigati da improbabili giornalisti e improvvisati capipopolo, schiere di buone madri di famiglia e onesti cittadini, incattiviti più che spaventati, sputano odio e violenza contro chiunque osi “fraternizzare col nemico”.

Mesi di sacrifici andati in fumo, settimane passate senza la messa in piega, weekend al mare sfumati, figli fra i piedi da accudire, movide e apericena saltati. Ma che fa la polizia, l’esercito, la chiesa, il sindaco. Scendiamo in piazza, suvvia.

I pogrom nascono così, quando orde di casalinghe e capicondominio arraggiati proclamano, dalle loro villette e dai tavolini dei bar dove scroccano caffè e aperitivi agli amici, la guerra santa.
Incitano alla caccia al “tunisino”.
Quei quattro ragazzi impauriti devono essere cacciati via. Come cani rognosi. Anzi no. I cani rognosi vanno ripuliti delle zecche e coccolati, siamo esseri civili noi, mica extracomunitari insensibili che i cani, e i gatti, se li mangiano.

Dimostrando di aver colto esattamente il senso della carità cristiana, una massaia proclama lo sciopero delle elemosine. Basta con gli spiccioli dati ai questuanti davanti la porta dei supermercati, la spesa nella macchina ce la mettiamo da soli. Non abbiamo bisogno di voi.

È probabile che qualche bamboccione non ancora svezzato dalle necessità di guadagnarsi il pane li prenda sul serio e si metta in testa di difendere il proprio quartiere.
E del resto, se altri più motivati di noi e spesso pure più bravi subentrano nell’emigrazione di braccia e cervelli, attività da sempre fiore all’occhiello della nostra economia, che ne sarà del nostro futuro?

Il nostro posto nell’esercito salariale di riserva della nazione ce lo siamo guadagnati. Il diritto a emigrare è un privilegio che ci appartiene. È nel nostro pedigree. Nella nostra razza.

Poveri contro poveri? No.
Da una parte ci stanno i poveri, quelli veri che non hanno più nulla da perdere, nemmeno le catene visto che pure le carceri per loro sono affollate, dall’altro ci stanno quelli che hanno paura di diventare poveri.

Da un lato le forze materiali su cui è possibile costruire un’ipotesi di rottura dello status quo dominante, dall’altro la reazione e la conservazione.

Portateveli a casa vostra, strillano.

Ebbene si. Li porteremo a casa nostra. Non per dargli da bere e da mangiare. Per questo c’è la pelosa assistenza della Caritas e il “buonismo” di quelli, fra di voi i più furbi, che sanno bene che è una guerra che non potete sostenere. E poi abbiamo poco da poter dividere poiché anche la generosità è un lusso che non ci possiamo permettere.

Li porteremo a casa nostra per insegnargli ciò che abbiamo imparato negli anni in cui vi abbiamo combattuto e in quelli in cui siamo stati sconfitti. Daremo loro, conoscenza e consapevolezza. Gli strumenti per inchiodarvi alle vostre responsabilità.
Gli insegneremo a combattere una società che non conoscono. Gli daremo le armi teoriche perché possano organizzarsi e trasformarsi, da ragazzi impauriti scalzi e assetati, in avanguardie di un rinnovato conflitto sociale.

Con la Vandea non si discute. Col tempo affogherà nel suo stesso vomito.

…in attesa che dalla collina di Babbaurra i figli e i nipoti di quei ragazzi scalzi, malati e impauriti, si diano convegno, in un futuro giorno della memoria, per mettere a ferro e a fuoco questa città.

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