Trotsky. Terrorismo e comunismo

Trotsky alla resa dei conti con Kautsky e i riformisti

Terrorismo e comunismo è un saggio – articolato in una prefazione, nove capitoli e una postfazione – scritto da Lev Trotsky fra il 1919 e il 1920. Siamo nel bel mezzo della guerra civile russa, il conflitto scatenatosi in seguito alla Rivoluzione d’Ottobre fra l’armata rossa e le armate bianche controrivoluzionarie. 

Nella prefazione l’autore chiarisce che la ragione di questo scritto risiede nella necessità di difendere la dittatura del proletariato russo dagli attacchi di Karl Kautsky, principale dirigente della socialdemocrazia tedesca. Il nome del saggio trae ispirazione proprio da un libro pubblicato da Kautsky nel 1919 (e intitolato, per l’appunto, “Terrorismo e comunismo”), nel quale il dirigente socialdemocratico, rivendicando l’ortodossia marxista, cercava di delegittimare il partito bolscevico e la sua azione politica. 

La pericolosità dell’attacco non stava tanto nella forza delle argomentazioni, alle quali Trotsky controbatterà punto su punto nella sua risposta, quanto nella notorietà del personaggio da cui l’attacco proveniva, quel Kautsky che era stato in passato uno stretto collaboratore di Engels e che rappresentava una delle principali figure di riferimento della socialdemocrazia a livello internazionale, tanto da essere definito il “Papa rosso”. Un personaggio molto conosciuto fra le masse proletarie, contro il quale già Lenin, poco prima di Trotsky, aveva fatto partire i suoi strali nel celebre La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, denunciandone il tradimento dei principi marxisti rivoluzionari. 

In un momento storico in cui il proletariato russo stava attuando uno sforzo enorme per difendere la rivoluzione e la conquista del potere politico dal violento attacco militare degli eserciti controrivoluzionari di mezza Europa, era importante secondo Trotsky stroncare le posizioni dei detrattori del bolscevismo sul piano teorico e difendere le ragioni dei rivoluzionari.

La guerra civile

Nella prima fase della guerra civile l’impegno principale dei rivoluzionari si concentrò nello sforzo bellico, al quale fu subordinata la limitata produzione industriale. In una seconda fase, dopo alcune importanti vittorie sulle armate bianche, fu possibile spostare una parte delle energie e delle risorse umane nell’industria. Contrariamente ai cattivi presagi espressi da Kautsky e ai suoi giudizi negativi sul proletariato russo, cui attribuiva egoismo, rozzezza e ignoranza, “le masse russe – scrive Trotsky – sono lontane dalla disgregazione politica, dalla disfatta morale o dall’apatia. Grazie a un regime che, sebbene abbia imposto loro pesanti oneri, ha dato un senso alla loro vita e un obiettivo molto elevato […] Al momento in tutti i settori dell’industria è in corso un’energica campagna per instaurare una rigorosa disciplina del lavoro e per intensificare la produzione”. A conferma della vitalità del regime sovietico e della popolazione russa, il fatto che centinaia di migliaia di lavoratori in tutto il Paese aderivano ai “sabati” e alle “domeniche” comunisti, prestando gratuitamente il proprio lavoro, al fine di agevolare l’uscita della Russia dalla grave crisi economica in atto. Furono creati comitati dei contadini poveri per piegare la resistenza dei kulaki, furono istituite armate del lavoro, si dovette sopperire alla perdita di territori (come l’Urali e il bacino del Donetsk) che costituivano fonti preziose di combustibile e materie prime, e si istituì il lavoro obbligatorio, necessario viste le condizioni in cui versava la Russia, organizzando con precisione la mobilitazione e la distribuzione della manodopera e convincendo i lavoratori rispetto all’imprescindibilità del loro contributo ai fini dello sviluppo economico della collettività. Furono sottoposti al lavoro obbligatorio anche esperti dell’intellighenzia borghese per contribuire al rilancio economico e, in generale, l’applicazione dell’obbligo del lavoro fu eseguito sulla base di un piano economico unico pensato in funzione di tutto il Paese e di tutti i settori produttivi, tramite il quale fu programmata l’attività per gli anni a venire prevedendo uno sviluppo in quattro fasi e partendo dagli obiettivi più basilari (assicurare alla popolazione i generi alimentari indispensabili, agevolare i trasporti, garantire alle industrie le materie prime per il funzionamento). 

Trotsky non nasconde la situazione di malessere vissuta dalle masse popolari in quel periodo delicatissimo: “noi viviamo, è vero, in condizioni di terribile rovina economica, allo stremo delle forze, nella povertà, alla fame; ma ciò non costituisce un argomento contro il regime dei soviet; tutte le epoche di transizione sono state caratterizzate da tali tragici aspetti. Ogni società divisa in classi (schiavista, feudale, capitalista), una volta esaurito il suo ruolo, non lascia tranquillamente la scena: occorre estirparla con un’aspra lotta intestina che sovente provoca ai combattenti sofferenze e privazioni più grandi di quelle contro cui sono insorti”. 

I borghesi rimarcano la povertà della Russia sovietica tralasciando che tale povertà è acuita dalla guerra di sopravvivenza che essa sta combattendo contro gli eserciti delle potenze europee, e dimenticano gli analoghi travagli che accompagnarono le stesse rivoluzioni borghesi, in particolare la Rivoluzione francese che accrebbe enormemente le sofferenze della popolazione, stretta fra la morsa della crisi economica, della guerra civile e dello scontro militare con le potenze estere. Del resto, non stiamo parlando di “meri cambi di persona al vertice del potere”, ma di rivoluzioni, eventi che coinvolgono milioni e milioni di persone, e che strappano per un periodo più o meno lungo ingenti masse di lavoratori dalla produzione gettandole nella lotta, con tutti i disagi che ciò può comportare per l’intera popolazione. Da ciò si deduce che “la guerra civile è nociva per l’economia. Ma farne una colpa all’economia sovietica equivale a imputare ai neonati i dolori della madre durante il parto”. Ne consegue che “occorre abbreviare la guerra civile”1, e per farlo occorre essere fermi nell’azione politica. È contro questa fermezza che si scatena lo spirito opportunistico dei kautskiani.

Contro il riformismo kautskiano

Rinnegando le posizioni da lui tenute anni prima, Kautsky è giunto successivamente al rinnegamento del marxismo rivoluzionario e alla capitolazione alla democrazia borghese. La politica per lui  si risolve nel parlamentarismo e quindi in una questione di mero calcolo numerico di voti.

Contro il riformismo di Kautsky, che crede nella “democrazia” come via pacifica al socialismo, Trotsky sostiene l’evanescenza della democrazia borghese, incapace di risolvere i problemi quotidiani delle masse proletarie in quanto mero elemento sovrastrutturale funzionale agli interessi della classe dominante. A conferma di ciò, Trotsky fa notare come la Francia repubblicana, che agli occhi di Kautsky è una delle democrazie più avanzate, in realtà è “il governo più reazionario” che ci sia mai stato, così come si evince dalla sua politica estera aggressiva e dalla sua politica interna che ormai toglie ogni spazio perfino per “il sindacalismo kautskiano, vale a dire, per un’ipocrita politica di conciliazione”2.

La democrazia assume in Kautsky e nei riformisti di ogni epoca una dimensione metafisica, si dissocia dalla realtà concreta e viene considerata in astratto. Ecco perché Kautsky “non ci indica con certezza nessun paese la cui democrazia assicura il passaggio al socialismo. Eppure, è fermamente convinto che debba esistere”. Alle democrazie concrete e storicamente esistenti ne contrappone una “dotata di tutte le qualità, eccetto la piccola virtù della realtà”. La democrazia metafisica dei riformisti ha ormai la medesima funzione della religione, col valore aggiunto di riuscire a ingannare anche i laici: “L’uguaglianza mistica del cristianesimo è scesa di uno scalino dal cielo sotto forma dell’eguaglianza “naturale” e “giuridica” della democrazia; ma senza veramente scendere fino a terra, fino alla base economica della società. Per l’oscuro bracciante che non cessa in tutta la sua esistenza di essere una bestia da soma al servizio della borghesia, il diritto ideale d’influire sul destino del popolo attraverso le elezioni parlamentari è a malapena più reale della felicità testé promessagli nel regno dei cieli”3.

La teoria socialdemocratica della conciliazione fra le classi e la metafisica della democrazia quale surrogato della rivoluzione costituiscono dei grossi pericoli per la classe proletaria, la quale necessita di un adeguato armamentario teorico per respingere simili venefiche menzogne.

È chiaro che i rivoluzionari devono battersi per i diritti democratici ma è altrettanto ovvio che la lotta politica non si deve fermare a questo livello e che deve essere finalizzata all’abbattimento delle istituzioni borghesi. E del resto, se pure il proletariato dovesse avere la maggioranza nei parlamenti democratici ciò non cambierebbe nulla, in quanto la borghesia non tarderebbe a mettere in campo ogni azione per evitare di essere espropriata, al punto da sacrificare lo stesso sistema democratico: “La questione del potere nel Paese, vale a dire la vita o la morte della borghesia, non si risolverà con dei richiami agli articoli della Costituzione bensì ricorrendo a tutte le forme della violenza”4

I kautskiani, riducendosi di fatto a difensori del sistema economico vigente, cercano con ogni mezzo di delegittimare le rivoluzione e la conseguente dittatura del proletariato sovietico. Uno degli argomenti più utilizzati contro i rivoluzionari è quello dei “rapporti di forza”, formula vaga con cui i piccolo borghesi pretendono di rappresentare come uno sforzo impossibile quello dei rivoluzionari. Si tratta chiaramente di un dogma, di un assunto che, senza confrontarsi con le dinamiche in atto, pretende di essere valido in ogni tempo e in ogni luogo, risolvendosi in sostanza in un palese tentativo di giustificare ed alimentare “l’indecisione, l’inerzia, la viltà, il tradimento”. Il sistema dei soviet viene considerato dai borghesi una “sfida insolente ai rapporti di forza”5, eppure gli imperi centrali sono crollati in seguito alla prima guerra mondiale mentre il potere sovietico ha resistito per due anni, scrive Trotsky, alle ingenti forze militari scatenate contro di esso dall’Intesa.

Per provare che il potere sovietico non corrisponderebbe ai “rapporti di forza”, qualche intellettuale di sistema ha ricordato le misure terroristiche che il governo dei soviet ha utilizzato (perquisizioni, arresti, censura della stampa, fucilazioni) nei confronti dei nemici della rivoluzione. Si tratta in realtà degli stessi mezzi utilizzati dalle democrazie borghesi contro gli oppositori politici (per esempio da Clemenceau in Francia) e che in quel caso gli stessi intellettuali concepiscono come dimostrazione di forza da parte dei suoi fautori!

La questione della direzione rivoluzionaria

I partiti della Seconda Internazionale e, in primo luogo, il principale di essi, la Spd tedesca (di cui Kautsky era fra i principali dirigenti) hanno sulle spalle delle pesanti responsabilità: “non avendo osato, non avendo saputo, non avendo voluto prendere il potere nel momento più critico della storia dell’umanità, avendo condotto il proletariato al reciproco sterminio nell’interesse dell’imperialismo, sono stati la forza decisiva della controrivoluzione”. Trotsky si riferisce ovviamente al voto favorevole alla Grande guerra da parte della Spd, il 4 agosto 1914, che di fatto portò alla crisi e allo scioglimento della Seconda Internazionale, avvenuto ufficialmente nel 1916. 

Secondo Trotsky è indubbio che “la potenza tecnica dell’uomo è già matura da tempo per l’economia socialista, che il proletariato occupa nella produzione un posto che gli può totalmente garantire la dittatura”6. Il problema sta nella superficialità e inadeguatezza dei principali partiti, e rispettivi dirigenti, del movimento operaio, diffidenti – per pregiudizio o opportunismo – verso le masse proletarie. Questa diffidenza li porta a giudicare sempre prematura la rivoluzione proletaria, a qualsiasi latitudine. A questa visione pregiudiziale Trotsky risponde molto seccamente: “nessuno concede al proletariato la scelta di montare a cavallo o meno, di impadronirsi del potere immediatamente o di rimandare la questione ad un secondo tempo. In talune condizioni la classe operaia è obbligata a prendere il potere, pena l’auto-eliminazione politica per un intero periodo storico […] il proletariato è obbligato, sotto la pressione di una necessità inderogabile, ad imparare da sé, con l’esperienza, a realizzare il compito così difficile di organizzare l’economia socialista. Quando è a cavallo, il cavaliere è obbligato a condurre il suo cavallo, a rischio di rompersi il collo” 7.

Kautsky arriva a sostenere che i soviet costituiscono un’organizzazione “primitiva”, ma trascura che   il sistema sovietico ha mobilitato le masse in proporzioni mai viste prima, superando di gran lunga la capacità di mobilitazione di partiti e sindacati, e che è stato capace di rimettere in moto l’economia in Russia dalle macerie della guerra civile. Fermo restando che, contro le tesi spontaneiste e “sovietiste” (proprie, ad esempio, di chi più avanti individuerà nell’egemonia del partito bolscevico sui soviet l’origine della successiva degenerazione stalinista), Trotsky sottolineava il ruolo centrale del partito e delle sue capacità organizzative nel processo rivoluzionario. Infatti, nel capitolo in cui mette a confronto l’Ottobre con l’esperienza della seconda Comune parigina, egli ricorda che la rivoluzione russa avvenne dopo che il partito bolscevico nei mesi precedenti aveva “conquistato la schiacciante maggioranza nei soviet degli operai e dei soldati di Pietroburgo, di Mosca e in generale di tutti i centri industriali del Paese e trasformato i soviet in potenti organizzazioni dirette dal nostro partito”8.

La dittatura del proletariato e il terrore rosso

I riformisti sono per la causa proletaria “l’ostacolo storico più nocivo”, mentre costituisce “un fattore storico di inestimabile portata” l’esistenza del partito rivoluzionario che ha la responsabilità di rovesciare l’esistente9. Come Kautsky stesso riconosceva prima di rinnegare il marxismo, l’obiettivo dei rivoluzionari è condurre la classe proletaria al potere politico e non avere la maggioranza in parlamento. Il compito dei rivoluzionari è infatti l’abolizione della proprietà privata e “l’unico modo per realizzarla è la concentrazione di tutti i poteri dello Stato nelle mani del proletariato e l’instaurazione, durante il periodo di transizione, di un regime eccezionale […] La dittatura è indispensabile perché non si tratta di modifiche parziali ma dell’esistenza stessa della borghesia. Su tale terreno non è possibile alcun accordo. Solo la forza può decidere”.

In seguito, Kautsky si è convertito al feticismo della maggioranza parlamentare e ha iniziato a condannare la violenza esercitata dal regime sovietico, cioè la dittatura del proletariato. Kautsky sostiene che il proletariato al massimo possa usare l’arma dello “sciopero generale” pacifico, che in realtà per i marxisti “non può risolvere la questione, dato che consuma le forze del proletariato più rapidamente di quelle dell’avversario, circostanza che, presto o tardi, obbliga gli operai a riprendere il lavoro. Lo sciopero generale può avere un’influenza decisiva unicamente quando costituisce il preludio ad un conflitto fra il proletariato e le forze armate dell’opposizione, ossia, un’insurrezione”.

È molto singolare che a fare moralismo in merito all’esercizio della forza da parte dei proletari e a farsi paladino della “pace” sia un personaggio come Kautsky che attaccò i bolscevichi per aver firmato la pace di Brest-Litovsk e che soprattutto, assieme al suo partito, la Spd, votò i crediti alla guerra imperialistica, attraverso la quale le varie borghesie nazionali usarono il proletariato come carne da macello. In realtà, “chi vuole i fini non può rifiutare i mezzi. La lotta deve essere condotta con intensità sufficiente da garantire effettivamente al proletariato l’esclusiva del potere […] La borghesia deve essere costretta a sottomettersi. Ma come? […] Kautsky sarebbe forse incline a credere che si possa domare la borghesia attraverso l’imperativo categorico di Kant?”. 

Il punto centrale della questione riguarda dunque la necessità del terrorismo, termine con cui si fa qui riferimento non al terrorismo individuale di matrice piccolo-borghese, molto diffuso in Russia  ai tempi dello zarismo e praticato dai populisti social-rivoluzionari. Tale forma di terrorismo viene infatti respinta dai marxisti in quanto azione politica inefficace che elude il lavoro fondamentale di costruzione del partito rivoluzionario con influenza di massa, sostituendolo con azioni ribellistiche a effetto promosse da singoli, azioni che non fanno avanzare la coscienza delle masse proletarie né modificano i rapporti di forza fra queste e le classi dominanti. 

Il terrorismo cui si riferisce Trotsky è il “terrore rosso”, cioè l’utilizzo necessario della forza da parte del proletariato, una volta passato al potere attraverso la rivoluzione, per stroncare la reazione degli espropriati. Un terrore che, lungi dall’essere il prodromo della deriva staliniana, così come sosterrà più avanti qualcuno, fu per Trotsky lo strumento necessario attraverso cui la rivoluzione in Russia fu difesa dai suoi nemici, interni ed esterni, e mediante il quale fu possibile vincere la guerra civile. 

“Chi rinuncia per principio al terrorismo, ossia a misure d’intimidazione e di repressione nei confronti della controrivoluzione armata e accanita, deve altresì rinunciare al dominio politico della classe operaia, alla sua dittatura rivoluzionaria. Chi rinuncia alla dittatura del proletariato rinuncia alla rivoluzione sociale e traccia una croce sopra al socialismo”10.

Dimenticando che il terrore ha caratterizzato ogni evento rivoluzionario della storia (dalla riforma luterana alla “Grande ribellione” inglese contro gli Stuart, dalla guerra civile americana alla Comune parigina del 1871, pur coi limiti sottolineati da Trotsky nel capitolo ad essa dedicato) Kautsky, contraddicendosi, asserisce di essere a favore della rivoluzione ma assolutamente contrario al terrorismo. E arriva persino a kautskizzare spudoratamente Marx, che viene “spogliato della sua bianca criniera di vecchio leone” e trasformato in un democratico ostile alla violenza! Falsificazione colossale, come si evince ad esempio dalle memorabili pagine marxiane de La Guerra civile in Francia: “le distruzioni, le crudeltà sono inevitabili in qualunque guerra. Solo dei sicofanti possono considerarle come dei crimini «nella guerra degli schiavi contro i loro oppressori, la sola guerra giusta della storia»”11.

I kautskiani non comprendono che “la borghesia stessa si è impadronita del potere attraverso l’insurrezione e l’ha consolidato con la guerra civile. In tempo di pace conserva il potere per mezzo di un complesso apparato coercitivo. Fintantoché vi sarà una società di classe, basata sugli antagonismi più profondi, il ricorso alla repressione sarà indispensabile al fine di assoggettare alla propria volontà la parte avversa. Anche se, in qualche Paese, la dittatura del proletariato nascesse nel quadro della democrazia, ciò non basterebbe ad evitare la guerra civile”. Ed è chiaro che “più la resistenza del nemico di classe battuto si mostrerà ostinata e pericolosa, più il sistema di coercizione si trasformerà inevitabilmente in sistema di terrore”. La conquista del potere da parte dei soviet nell’Ottobre si realizzò quasi senza resistenza da parte della borghesia russa. Fu l’intervento dei governi imperialisti occidentali che diede vigore ai primi focolai di resistenza da parte degli espropriati e che innescò la guerra civile, davanti alla quale si rese necessario il terrore rosso. Se in altri Paesi europei fosse scoppiata la rivoluzione, la coalizione antisovietica avrebbe avuto dimensioni minori, così come la guerra civile e, conseguentemente, il terrore rosso.

Kautsky si scandalizza della limitazione o censura della libertà di stampa, ritenendo utopisticamente la stampa lo strumento più sicuro “contro la corruzione”! Ma è chiaro che anche la stampa, in tempo di guerra, diventa uno strumento di supporto alle forze in conflitto. Ed è altrettanto chiaro che “nessun governo che conduce una guerra seria può permettere la diffusione nel proprio territorio di pubblicazioni che sostengano apertamente o segretamente il nemico”. La censura durante la guerra civile russa riguardò anche i social-rivoluzionari e i menscevichi, poiché costoro, lungi dall’essere – come sostiene Kautsky – “sfumature” all’interno del movimento socialista, erano organizzazioni che, assieme ai cadetti, operavano “di concerto con la controrivoluzione”, sostenendo e rafforzando le armate bianche contro i rivoluzionari12.

I moralisti kautskiani rimproverano ai rivoluzionari di usare lo stesso metodo impiegato dallo zarismo, aggiungendo che il terrore bianco “non infanga i propri principi, mentre i bolscevichi, applicando il terrore rosso, violano il rispetto del «carattere sacro» della vita umana” da essi stessi proclamato. Trotsky risponde con sarcasmo: “non lo capite, ipocriti devoti? Ve lo spieghiamo noi. Il terrore dello zarismo era diretto contro il proletariato. La sbirraglia zarista strangolava i lavoratori che militavano per il regime socialista. Le nostre Commissioni straordinarie fucilano i proprietari terrieri, i capitalisti, i generali che si sforzano di ristabilire l’ordine capitalista. Afferrate questa… sfumatura? Sì? Per noi comunisti è più che sufficiente”. “Fino a quando la forza lavoro umana e, di conseguenza, la vita stessa saranno articoli di commercio, di sfruttamento e di rapina, il principio del carattere sacro della vita umana non sarà altro che la più infame delle menzogne, il cui scopo è mantenere soggiogati gli schiavi […] Per rendere sacra la persona occorre distruggere il regime sociale che la schiaccia. E questo compito può essere svolto solo con le armi e con il sangue”. “Il terrorismo bianco è l’arma di una classe storicamente reazionaria”, che attraverso la repressione può ormai soltanto ritardare la propria caduta mentre il “terrore rosso è l’arma utilizzata contro una classe destinata a perire e che non vi si rassegna. Se il terrore bianco può unicamente ritardare l’ascesa del proletariato, il terrore rosso affretta la morte della borghesia”.

Kautsky accusa i comunisti di essere dei fanatici che si sentono gli unici depositari della verità. In tal modo, per lui, che vive in un mondo ideale, la rivoluzione, lungi dall’essere una questione di vita o di morte per le classi in lotta si riduce a “una discussione letteraria per stabilire… la verità!”. Trotsky controbatte a queste accuse con fermezza: “Che profondità! La nostra «verità» non è evidentemente assoluta. Tuttavia, proprio perché attualmente versiamo sangue in suo nome, non abbiamo nessuna ragione, nessuna possibilità di avviare una discussione letteraria sul carattere relativo della verità con coloro che ci «criticano» con qualsiasi tipo di arma”!13.

La profondità e la schiettezza dell’analisi trotskiana spiegano come mai i centristi e i riformisti negli ultimi decenni abbiano preso le distanze da questo testo di Trotsky oppure abbiano provato a cacciarlo nel dimenticatoio. Noi lo sottraiamo all’oblio e invitiamo alla lettura di questo testo che a distanza di un secolo non smette di essere attuale.

P.S. Prossimamente pubblicheremo a puntate una nuova traduzione di Terrorismo e comunismo, arricchita dall’apparato di note dell’edizione inclusa nel dodicesimo volume delle opere complete di Trotsky in russo (supervisionata dall’autore), a cura della Casa Editrice di Stato della RSFSR negli anni tra il 1925 e il 1927.

Note

  1. L. TROTSKY, Terrorismo e comunismo in Opere scelte, vol. 4, Prospettiva edizioni, 2013, prefazione, pp.71-73
  2. Ibidem, pp. 73-74
  3. Ibidem, III, pp. 93-96
  4. Ibidem, IV, p. 106
  5. Ibidem, I, pp. 76-78
  6. Ibidem, I, p. 79
  7. Ibidem, VII, p. 139
  8. Ibidem, V, p. 118
  9. Ibidem, I, p. 80
  10. Ibidem, II, pp. 82-85
  11. Ibidem, VI, pp. 131-134
  12. Ibidem, IV, p. 106-111
  13. Ibidem, IV, pp. 109-113

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